L’Ape musicale

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Madama Butterfly alla Scala

Madama Butterfly

“Ora mi sono convinto che l’opera deve essere in due atti […] Il dramma deve correre alla fine senza interruzioni, serrato, efficace, terribile. […] Sono certo di inchiodare il mio pubblico e di mandarlo via non scontento. E avremo allo stesso tempo un taglio nuovo di opera, bastante per tenere una serata”. Con queste parole Giacomo Puccini perorava di fronte a un recalcitrante Giulio Ricordi il taglio innovatore della nascente Madama Butterfly, la “tragedia giapponese” che stava componendo a partire dall’omonima pièce di David Belasco che aveva visto a Londra nel 1900 e che era a sua volta tratta da un racconto dell’americano John Luther Long. La divisione in soli due atti rispondeva a un’esigenza di concentrazione drammatica che era evidentemente nello Zeitgeist del teatro musicale europeo: basti pensare agli atti unici di Strauss (Salome è del 1906, Elektra del 1909) che condividono con Butterfly la scabrosità dell’argomento e la drammatica morte in scena della protagonista.

Puccini l’ebbe vinta e l’opera andò in scena in due atti al Teatro alla Scala il 17 febbraio 1904 con la direzione di Cleofonte Campanini e Rosina Storchio come Cio-Cio San. La serata però fu più che contrastata: l’allestimento fu forse inadeguato ma di certo i nemici del compositore e del suo editore alimentarono le proteste che degenerarono in una bagarre (“un linciaggio” nelle parole di Puccini). La rivista “Musica e musicisti” edita da Ricordi osservò: “Lo spettacolo che si ha nella sala pare altrettanto ben organizzato quanto quello del palcoscenico, perché principiò esso pure precisamente col principiare dell’opera. Tanto che sembrava di assistere a una battaglia di tutta attualità come se i russi in serrati battaglioni d’oste nemica volessero dare l’assalto al palcoscenico per spazzar via tutti i giapponesi pucciniani”, dove il riferimento all’incipiente guerra russo-giapponese allude ai sostenitori della Siberia di Giordano, andata in scena nel dicembre 1903. I Ricordi si consultarono e fu Tito, il figlio di Giulio, a suggerire a Puccini di rinunciare alle scelte più controverse spezzando in due parti il second’atto, tagliando un buon migliaio di battute in gran parte dedicate a episodi di colore e umoristici, e regalando al tenore una romanza prima della conclusione. La nuova versione trionfò a Brescia il 28 maggio dello stesso anno, ma la storia dei ripensamenti del compositore era destinata a proseguire: Dieter Schickling documenta, oltre alle due partiture del 1904 relative alle edizioni italiane, due edizioni relative alle esecuzioni inglesi nel 1906, due edizioni relative al debutto parigino nel 1906 e 1907 prima della terza edizione italiana nel 1907, ma il quadro è ulteriormente complicato dal ritrovamento di alcune copie con variazioni di pugno del compositore. Di particolare importanza sono i rimaneggiamenti avvenuti in occasione della prima di Parigi nel 1907, dove Albert Carré, direttore dell’Opéra Comique e responsabile dell’allestimento, insistette per smorzare tanto i tratti antiamericani quanto l’irrisione dei costumi giapponesi.

Alla Scala Butterfly non tornò fino al 1925, dopo la morte del compositore, nella versione in tre atti con la direzione di Toscanini e i costumi di Caramba: la Scala si riallineava così ai grandi teatri internazionali che avevano riconosciuto in Butterfly un capolavoro. E tuttavia Puccini, proverbiale per innata insicurezza e maniacale perfezionismo, continuò a ripensare al suo dramma “serrato, efficace, terribile” e sedici anni dopo, nel 1920, sollecitò Ricordi a riproporre al Teatro Carcano di Milano una versione che ripristinava parte dei tagli. Di fatto, osserva Dieter Schickling, “Non si può determinare quale versione di Madama Butterfly il Puccini maturo reputasse corretta. Ogni singola recita in cui fu coinvolto fu per lui un esperimento, fino alla fine”.


 

 

 
 
 

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