Tre domande al revisore della Caduta di Gierusalemme
a cura di Roberta Pedrotti
In occasione della proposta (in prima italiana moderna) della Caduta di Gierusalemme di Giovanni Paolo Colonna a Barga, abbiamo incontrato il curatore dell'edizione critica, Francesco Lora.
Il filologo è colui che permette ai musicisti di dare vita e voce alla musica dei secoli passati, spesso le vicende legate alla ricerca sono avvincenti romanzi. Ma altrettanto spesso questo lavoro non è conosciuto come meriterebbe e raramente si ascolta la voce diretta dei musicologi.
Un breve sguardo d’insieme su Colonna e La caduta di Gierusalemme: come si collocano storicamente e stilisticamente? Quali sono i principali motivi d’interesse per il pubblico moderno?
Giovanni Paolo Colonna fu, nella seconda metà del ’600, uno dei compositori più noti e influenti. Tra gli altri, fu ammirato dal sacro romano imperatore Leopoldo I d’Asburgo, dal duca di Modena Francesco II d’Este e dal papa Innocenzo XII. È un esempio di homo novus, cioè di persona di umili origini capace di salire, passo dopo passo con una tenacia inaudita, fino ai vertici della vita culturale del tempo; per vent’anni fu maestro di cappella della basilica di S. Petronio: da lì lanciò una sfida teorica ad Arcangelo Corelli e rifiutò l’assunzione in S. Pietro in Vaticano. Il suo stile, sublime per dottrina e invenzione, si presta in particolare all’espressione del grandioso e del terribile. Non è un caso che a lui siano stati affidati libretti d’oratorio tra i più scabrosi mai scritti: in essi sono affrontati i temi del tradimento coniugale e familiare (Salomone amante e L’Assalonne), dell’ira divina (Il Mosè legato di Dio, dove si narrano le piaghe d’Egitto) e persino dell’infanticidio unito all’antropofagia (La profezia d’Eliseo); temi che nel teatro d’opera coeva sarebbero stati appena sfiorati o direttamente censurati. Per il pubblico moderno, la riscoperta di questo corpus significa la conoscenza di uno stile musicale autenticamente barocco, che non teme strutture imprevedibili e dissonanze ardite, e di lavori che con rara lucidità artistica pongono di fronte alle atrocità del mondo, purtroppo sempre attuali. Non destinati alla scena e non vincolati al rigore delle “unità aristoteliche” (una sola azione, un solo tempo, un solo luogo), gli oratorii vantano spesso una forza espressiva e un potenziale teatrale per nulla inferiori a quelli delle opere, sembrano spesso avere un taglio cinematografico ante litteram e risultano particolarmente coinvolgenti per l’ascoltatore odierno. La caduta di Gierusalemme è un esempio di quanto detto: il vocabolario musicale, in un solo tempo, illumina la mente e prende allo stomaco; senza mandarla a dire, la trama è un monito alla sicumera del tiranno, che nella sua tracotanza porta alla rovina sé stesso, la sua città e il suo popolo. Chi vuole indicare qualcosa di più attuale?
Come si sono svolte le ricerche per l’edizione critica, quali le difficoltà e le eventuali sorprese? Qual è il panorama filologico attuale per questo repertorio?
Curare un’edizione critica significa eseguire un lavoro di restauro non su un’opera pittorica, scultorea o architettonica, bensì su un testo che, attraverso le epoche, ha perso qualcosa della propria fisionomia originale, e rischia di essere letto in modo frammentario o errato. Tale lavoro si effettua confrontando tutte le fonti che tramandano il testo: una serie di processi logici consente di riportare in luce, sotto le incrostazioni, ciò che l’autore aveva inteso consegnare ai propri lettori o ascoltatori, spesso tra dubbi e ripensamenti. Nel caso della musica vocale, il filologo deve affrontare nel contempo questioni letterarie e musicali, e comunque rispondere ai problemi ben diversi che partiture di epoche e contesti differenti pongono. La caduta di Gierusalemme non è una riscoperta clamorosa né un caso filologico insolubile: esiste un solo manoscritto della partitura, appartenuto a Francesco II d’Este, poi trafugato dall’esercito napoleonico e oggi conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi; ed esistono tre edizioni a stampa del libretto, corrispondenti alle tre diverse esecuzioni di Modena 1688, Bologna 1690 e Lucca 1695. Quanto al testo letterario, le varianti tra le quattro fonti si lasciano facilmente riordinare. Quanto al testo musicale, possedere un solo testimone rende più rapidi i tempi di trascrizione, ma obbliga a riflessioni più profonde sul testo, poiché a ogni passo quell’unico testimone potrebbe dire il falso senza temere un diretto contraddittorio. Ciò vale in particolar modo nel caso di Colonna: la scrittura musicale osa procedimenti tanto estremi da far intravedere l’errore dove invece il compositore ostenta il suo genio; in simili casi, solo l’esperienza può assistere il musicologo: ho consegnato la mia edizione critica della Caduta di Gierusalemme al Festival Opera Barga – e nel contempo ho consegnato quella della Profezia d’Eliseo all’editore Ut Orpheus di Bologna: un volume fresco di stampa – solo dopo aver dedicato molti anni allo studio delle musiche di Colonna, e comunque solo dopo aver edito anche gli altri oratorii colonniani superstiti. Per un buon filologo, l’obiettivo dovrebbe essere annullarsi nel servizio all’autore: anche quando, come mi è capitato nella Caduta di Gierusalemme, sia necessario ricomporre ex novo una battuta dimenticata dal copista; e anche quando, come nel caso di Colonna, si navighi da pionieri: non solo questo autore aspetta la riconsiderazione che merita, ma tutto il repertorio del secondo ’600 – cioè quanto sta tra l’ultimo Monteverdi e il primo Händel, con rare eccezioni quasi mai italiane: Lully e Purcell su tutti – attende di essere rivalutato dopo un oblio imbarazzante.
Chi è Francesco Lora? Come oggi vive uno studioso? Quali le difficoltà, le motivazioni, le gratificazioni?
Sono un musicologo trentaduenne, e prendo atto della versatilità che questa etichetta impone al giorno d’oggi: lavoro come critico musicale e saggista, collaboro con artisti e istituzioni di cultura e spettacolo, ho esperienze di insegnamento dal livello divulgativo a quello accademico, mi sono laureato con una tesi di argomento filologico-musicale e addottorato con una di argomento storico-biografico e drammaturgico. Non ci si può occupare soltanto di ciò che si preferisce. Per la mia generazione questo è innanzitutto uno stile di vita, che si avvia da giovanissimi, quando la passione non manca, e che si mantiene poi in nome di un cocciuto credo etico, per sottrarsi alla scandalosa frode che più che mai oggi è in atto ai danni del sapere, dell’identità, della cultura. Il conto in banca non decolla certo preparando edizioni critiche, simbolicamente o per nulla pagate; i loro costi (viaggi, riproduzioni, spedizioni, strumenti informatici e di cancelleria) ricadono anzi quasi sempre sul curatore. Inoltre, ogni volta che si inizia un nuovo lavoro di edizione è come dover imparare tutto da capo, soprattutto se la curiosità propria o altrui (quella del collega, dell’editore, del musicista, dell’ascoltatore) invitano a saltare da un compositore, da un genere musicale e da un periodo storico all’altro: negli ultimi mesi, per esempio, mi sono diviso tra il ’600 degli oratorii di Colonna, il ’700 delle opere di Hasse e Vinci (Siroe e Medo rispettivamente: due lavori composti per Farinelli) e l’800 della Rappresaglia di Mercadante, una favolosa opera buffa che Riccardo Muti dirigerà al Teatro Real di Madrid. La gratificazione più concreta si ha quando la partitura esce dal cassetto e torna a farsi suono, e quando il filologo che ha curato l’edizione critica può tornare a essere ascoltatore tra gli ascoltatori.