Crescendo barbarico
di Luigi Raso
Salome di Strauss torna al Teatro di San Carlo: un'interpretazione musicale in crescendo con la direzioen di Dan Ettinger corrisponde a una visione scenica illustrativa ma poco approfondita.
NAPOLI, 20 marzo 2025 - Forse non tutti sanno che…al San Carlo la prima assoluta di Salome di Richard Strauss, il primo febbraio del 1908, ebbe uno spettatore d’eccezione: Giacomo Puccini. Di questa serata, nel rimarcare la propria distanza dalla poetica del collega tedesco e censurando l’esecuzione, il compositore lucchese scrisse a un amico: “..ieri capitai colla première di Salomé diretta da Strauss e cantata (?) dalla Bellincioni la quale danza a meraviglia. Fu un successo… ma quanti ne saranno convinti? L’esecuzione orchestrale fu una specie di insalata russa mal condita: ma c’era l’autore, e, tutti dicono, fu perfetto”. È interessante soffermarsi sul punto interrogativo tra parentesi successivo al participio passato “cantata”: misura quanto sia diverso il concetto di canto di Puccini rispetto a quello di Strauss.
Dal 1908 si contano, compresa la presente, ben nove riprese, che collocano Salome saldamente in testa alla classifica delle opere di Richard Strauss - poco, purtroppo - rappresentate al San Carlo.
Se Giacomo Puccini fosse stato presente stasera in sala sicuramente non avrebbe potuto paragonare l’esecuzione a “una specie di insalata russa mal condita”: la direzione di Dan Ettinger, direttore musicale del San Carlo, è sicura e nel complesso ben calibrata. Benché all'inizio potesse apparire esangue, priva della giusta della giusta dose di tensione ed erotismo che il notturno lunare esprime, nel corso dell’opera - ed è questa una tendenza che si riscontra anche per le prove degli interpreti principali - la drammaticità cresce, i colori si fanno più vivi, il tasso di erotismo, messo a decantare nella prima parte, inizia a ribollire con la celeberrima Danza dei setti veli per poi imboccare la sua curva rapidamente crescente.
Ettinger e l’Orchestra del San Carlo si dimostrano attenti a districarsi tra gli insidiosissimi innesti tematici e strumentali, i repentini cambi di misura che abbondano nella partitura di Strauss. Il direttore appare a suo agio nelle violenti sonorità di quest'opera, anzi, punta ad esacerbarne le caratteristiche più brutali. Salome può essere intesa come una profezia sul destino dell’Europa e del Novecento, un’apoteosi dell’irrazionalismo, della violenza barbarica e dell’ossessione incarnata dal desiderio inestinguibile della protagonista per il corpo di Jochanaan. In Salome (1905) Richard Strauss, ambiguo nei confronti del nazismo e dei suoi deliri antisemiti (recentissimo il ritrovamento del Lied Wer tritt herein?, dedicato al criminale di guerra Hans Frank, governatore della Polonia occupata e soprannominato il “macellaio della Polonia”, in segno di ringraziamento per aver impedito che la propria villa di Garmisch desse asilo a una famiglia di sfollati), ha intravisto il futuro; in Der Rosenkavalier (1911), intuendo l’imminente dissoluzione della koinè culturale degli Imperi centrali, se n’è estraniato rifugiandosi nella nostalgia del ‘700 di Maria Teresa; con Metamorphosen, Studio per 23 archi solisti, ha riflettuto sulla distruzione della cultura e dell’arte in Germania a causa della Seconda guerra mondiale.
Tornando all’interpretazione di Dan Ettinger, emerge vivida, come dichiarato dallo stesso direttore israeliano nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’opera, la sua affinità culturale alla storia di Salomè: infatti, la sua lettura, quando prende (lentamente) quota la tensione, non ha riserve ad affondare le mani nel turgore della partitura, nei suoi anfratti più brutali e dolorosi (emblematico è il risalto conferito alle percussioni), il ricorso a sonorità poderose e sferzanti. A farne le spese talvolta è l’equilibrio con il palcoscenico, anche a causa dei pesi specifici vocali piuttosto limitati, all’inizio, di Ricarda Merbeth (Salome) e di Lioba Braun (Herodias), purtroppo per l’intera parte.
Egregia, considerata l’estrema difficoltà della partitura e la complessità dell’ordito strumentale, la prova dell’Orchestra del San Carlo: tendenzialmente molto precisa, si dimostra compatta, sfoggia un’ampia gamma dinamica e di colori, sia delle sue prime parti che dell’intera compagine.
Bene anche le prove delle componenti del Balletto del San Carlo, diretto da Clotilde Vayer, impegnato nella Danza dei sette veli.
Due artisti del cast riportano chi scrive molto indietro nel tempo: il nome di Charles Workman, stasera Herodes, al lontanissimo 1998, quando al San Carlo fu Narciso nel Turco in Italia. Stasera è un tetrarca di Giudea molto ben caratterizzato nel suo fare libidinoso, ben cantato, pur non sfoggiando un peso adeguato all’imponente orchestra di Strauss, e scenicamente appropriato.
Anche il nome di Lioba Braun è presente negli annali del teatro e nella memoria di chi scrive: al San Carlo è stata Brangäne nel 2004 (parte poi ripresa nel 2015), Fricka nel 2005, Kundry nel 2007: stasera la sua Herodias si nota per la personalità d’artista e poco per la vocalità che ha pagato un tributo elevato al trascorrere del tempo.
Reduce al successo della recente Elektra (la recensione: leggi la recensione), la prestazione di Ricarda Merbeth è, come quella di gran parte del cast, in crescendo: se all’inizio denota un peso vocale non del tutto adeguato, al quale supplisce con l’idiomaticità e l’incisività del suo canto, nel corso dell’opera il fraseggio analitico, le doti d’attrice fanno decollare la sua Salome. Indubbiamente non può attendersi da un’interprete dalla carriera lunga e articolata carriera (ha iniziato come soprano leggero di coloratura) mezzi vocali rigogliosi; ma, laddove l’organo vocale denota qualche appannamento nel registro medio e basso, interviene l’intelligenza dell’artista. La scena finale, acme di tensione ed erotismo, è cantata e declamata con incisività terrificante, con un’attenzione spasmodica alla singola parola, sfoggiando acuti sicuri e netti (così come nel corso dell’intera interpretazione): Ricarda Merbeth dà l’impressione di aver canalizzato e liberato nella scena finale (“Ah! Du wolltest mich nicht deinen Mund küssen lassen, Jochanaan!”) tutta la tensione emotiva che con parsimonia ha accumulato nel corso dell’opera.
Piuttosto monolitico nell’interpretazione, invece, e dal timbro piuttosto chiaro e legnoso è Jochanaan di Brian Mulligan, la cui interpretazione, abbastanza corretta nella linea vocale, latita di fantasia e incisività.
Nei ruoli secondari, che mai come in Salome contribuiscono a definire l’ordito teatrale e musicale dell’opera, sono da lodare, pur nella brevità delle rispettive parti, le voci fresche e rigogliose di Narraboth di John Findone del Page der Herodiasdi Štěpánka Pučálková, entrambi molto appropriati, anche scenicamente, nel breve ma significativo scambio di battute che apre l’opera. Si segnalano, soprattutto per la pregevole esecuzione dell’insidioso quintetto dei cinque ebrei, l’espertissimo Gregory Bonfatti (Erster Jude), Kristofer Lundin (Zweiter Jude), Sun Tianxuefei (Dritter Jude), Dan Karlström (Vierter Jude), Stanislav Vorobyov (Fünfter Jude). Apprezzabili anche l'Erster Nazarener e lo Zweiter Nazarener di Liam James Karai e Žilvinas Miškinis; l'Erster Soldat e lo Zweiter Soldat di Alessandro Abis e Artur Janda; infine, Ein Kappadozier di Giacomo Mercaldo e Ein Sklave di Vasco Maria Vagnoli, questi ultimi due artisti del Coro del San Carlo.
Sul versante scenico questa Salome ripropone l'allestimento firmato da Manfred Schweigkofler, già visto nel novembre del 2014. Se la memoria non inganna, non ci sono sostanziali cambiamenti di regia: lo spettacolo, alquanto statico, è racchiuso nella scena unica di Nicola Rubertelli che mescola riferimenti all’antichità a citazioni dei dipinti di Marc Chagall, amplificati dal riflesso di un incombente specchio. L'intento pare prevalentemente illustrativo: si racconta il dramma, la storia dell’ossessione di Salome, si governano i movimenti scenici dei protagonisti, si inciampa nella Danza dei setti veli, nel corso della quale la Merbeth accenna movimenti coreografici mentre sette ballerine, una per ciascun velo, la doppiano producendosi in una coreografia, di Valentina Versino, che della sensualità malata che la musica esprime poco o nulla.
Ma dell’analisi del groviglio psicologico di Salome e delle relazioni della sua “famiglia difficile”, punto focale delle recenti messinscene dell’opera (citare registi e/o spettacoli per operare paragoni è inelegante e fuorviante), il disegno di Schweigkofler, supportato dall’uso generico delle luci di Claudio Schmid, tace.
La novità sostanziale, rispetto allo spettacolo del 2014, è nei costumi, sontuosi e dai colori accesi, di Daniela Ciancio, direttrice della sartoria del teatro, la quale li ha impreziositi con gioielli e accessori realizzati in ScobySkin, materiale bio-fabbricato da microrganismi batterici derivanti dagli scarti di frutta e brevettato dalla TecUp.
L’atto unico di Salome probabilmente ha fiaccato la resistenza del pubblico del San Carlo, almeno di quello seduto in platea: neppure svaniti i quattro ultimi accordi tellurici che seguono all’imprecazione/ordine “Man töte dieses Weib!” (“Si uccida questa donna!”) di Herodes, il fuggi fuggi si sovrappone agli applausi, prolungati ma poco calorosi, per tutti gli artefici dello spettacolo.
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