L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Capolavoro di psicanalisi

di Francesco Lora

Al Teatro alla Scala, Salome di Richard Strauss è soprattutto lo spettacolo del regista Damiano Michieletto, dello scenografo Paolo Fantin e della costumista Carla Teti. Non all’altezza di questo nuovo allestimento sono infatti la concertazione, ad onta di un’orchestra in sé eccellente, e le prime parti di canto, sulle quali svetta il magnetico cameo di Linda Watson come Herodias.

MILANO, 27 gennaio 2023 – Non è più un mistero che la Salome di Oscar Wilde e Richard Strauss, capolavoro in sé, divenga un capolavoro al quadrato nella lettura teatrale di Damiano Michieletto. Ma c’è stato da attendere. Questo nuovo allestimento doveva infatti andare in scena al Teatro alla Scala nel marzo 2020, ma a prove già avviate è stato cancellato per dilagare della pandemia da Covid-19; è stato recuperato nel febbraio 2021, ma durante un’ulteriore quarantena e dunque limitato a una sola recita, data a porte chiuse e destinata alla trasmissione televisiva [leggi la recensione]; è stato finalmente presentato in pubblico, poi, nelle sei recite degli scorsi 14-31 gennaio, con tre anni di ritardo sulla tabella di marcia ma con una messa a punto drammaturgica sempre più lucida, rifinita e chiara: l’uomo di teatro non deve infatti più fare i conti, oggi, col distanziamento fisico, le mascherine e la regìa televisiva che seleziona a proprio capriccio il colpo d’occhio da trasmettere allo spettatore.

Quella di Michieletto, per Milano, è la terza grande lettura psicanalitica di Salome data, dal volgere nel terzo millennio, insieme con quelle di Robert Carsen, per Torino e Firenze, e di David McVicar, per Londra; ancora più di queste, anzi, essa riesce in parallelo a salvaguardare e far convivere la componente mitica, meno attuale e meno pressante, eppure presente, fino a risultare pericolosa se non restituita nel giusto equilibrio, come ha insegnato il fascinoso scivolone di Romeo Castellucci a Salisburgo [leggi la recensione]. Nella consistenza testuale di Salome, del resto, la poetica michielettiana trova il proprio elemento. Un singolo esempio vale per tutti gli altri, poiché da questo essi poi dipendono: tipico di Michieletto è servirsi di “doppi” scenici dei personaggi, còlti durante la loro infanzia, e qui si vede appunto una protagonista bambina, tutt’insieme orfana del padre assassinato dallo zio, usata dalla madre congiuntasi allo zio e adescata, violata da quell’orco dello zio; il profeta Jochanaan diviene così l’inconscio “doppio” del padre, desiderato, a ogni più fosco costo, fuori dalla cisterna-tomba ove sono stati tappati i panni sporchi di famiglia; in fondo alla resa dei conti con Herodes, lo zio, starà infine la necessità d’annichilirsi nella morte, e dunque, per Salome, il gettarsi ella stessa nel nero della cisterna. Ci si procuri il programma di sala e si legga l’intervista rilasciata da Michieletto: per una volta si tratta non dell’excusatio non petita di registi incapaci di tradurre in leggibili fatti scenici la loro idea astratta e confusa, bensì di un’illuminante riflessione sul testo, sul mito e sui rapporti teatrali, da tenere d’ora in poi sempre a mente nel tornare a Salome. Per tacere dell’aggiuntivo capolavoro consistente nelle scene di Paolo Fantin e nei costumi di Carla Teti: spazi che simbolicamente dischiudono conturbanti luoghi della mente, usano virtuosisticamente gli elementi della terra e del fuoco, sono percorsi dall’ossessività di angeli neri e dallo sfaldarsi fisico della protagonista, il tutto con un’insolenza di design che più milanese di così non potrebbe essere.

Tre stagioni liriche di stagionatura artistica, al contrario, non hanno fatto bene al versante musicale. La Salome del 2020, infatti, avrebbe dovuto essere concertata da Riccardo Chailly, signore supremo delle alchimie timbriche secondo la sensibilità italiana, e avere per protagonista Malin Byström, soprano con emissione del più prezioso velluto e di prima scelta nel catalogo internazionale degli interpreti. La Salome del 2021, invece, era stata riassegnata a Zubin Mehta, maestro di vecchia scuola rischiosamente unito a una regìa di segno nuovissimo: solo per una rinuncia dell’ultimo momento era tornata al carisma di Chailly, recepito alla perfezione da una differente ma ottima protagonista, Elena Stitkhina. Il colpo di fortuna non s’è ripetuto nella Salome del 2023, con Mehta ancora una volta rinunciatario ma sostituito – malgrado le abbondanti settimane di preavviso – da maestri dalla statura ben inferiore alla propria e a quella di Chailly. Vanno distinti allora tre livelli. Il primo è quello dell’orchestra della Scala, sempre più strapotente nella tecnica, sempre più maniacale nell’attenzione, sempre più ispirata nel temperamento: tutte doti che essa vanta di per sé, persino nei gorghi strumentali di Strauss, e che una bacchetta può agevolmente riscuotere anche in mancanza di pari qualità comunicative. Il secondo livello è quello di Michael Güttler, il solido professionista venuto a Milano per dirigere con funzionale correttezza l’opera, alle recite del 20 e 27 gennaio, ossia non per concertarla avendo autorità d’imprimervi una specifica e personale idea interpretativa. Il terzo livello è quello del concertatore vero e proprio, Axel Kober: anch’egli, come e non tanto più di Güttler, è un solido professionista adatto alle scene germaniche, dove per una buona lettura di Salome conta spesso più la tradizione sedimentata nelle orchestre che l’estrosa iniziativa presa dal podio. In un teatro come la Scala, tuttavia, dove i capolavori di Strauss non sono pane quotidiano e dove ogni spettacolo dovrebbe costituire un riferimento, l’apporto di Kober è lontano dalle alte, legittime aspettative di un pubblico abituato a Chailly e che anche nella Salome del 2007 s’era goduto un Daniel Harding inusitatamente forte di personalità. Alle somme: mentre in scena si vedono e meditano meraviglie scenografiche e concettuali, grazie a Michieletto, Fantin e Teti, dal golfo mistico ci s’entusiasma per la prestanza dei professori scaligeri, non cavalcata però da un pari maestro; mancano l’atmosfera e la narrazione, nonché l’arte d’istruire e stuzzicare i cantanti, affinché diano il meglio di sé in un orizzonte coerente tra tutti.

Delude, così, la Salome di Vida Miknevičiūtė, puntuale nella recitazione ma esigua in fatto di risonanza generosa (in una sala gigantesca com’è quella della Scala), d’estensione facile (in una scrittura che salta senza pietà lungo oltre due ottave), di resistenza affidabile (in una parte che la vuole sempre in scena, senza tregua) e di fraseggio vario (in un testo che impone una sfumatura inedita per ogni sillaba e nota). Una protagonista, dunque, adeguata alla pacifica routine mitteleuropea – uno spettacolo tutte le sere, purché ci sia – ma non a un primo teatro latino e ai suoi doveri d’unicità. Si guarda allora con invidia al cartellone della Staatsoper di Vienna, la quale, proprio durante le recite milanesi, ha tenuto le prove di un altro nuovo allestimento di Salome e l’ha per l’appunto impreziosito con la medesima Byström “soffiata” a Milano. Dello Jochanaan di Michael Volle, poi, sarebbe vietato non dire che bene: anche lì, però, il canto, la parola e il porgere si stanno facendo viepiù uniformemente fibrosi e astiosi, perdendo di vista la titanica autorevolezza e il morboso fascino connotati a un profeta dall’anatema facile e dalla perversa desiderabilità. A voler estendere lo stesso ragionamento, la parte di Herodes richiede una meticolosa realizzazione dello squilibrio mentale, e non la facile riduzione a macchietta petulante, cui invece si limita Wolfgang Ablinger-Sperrhacke.

Ci sono però anche le buone notizie: quelle su Sebastian Kohlhepp, per un Narraboth diafanamente bachiano di voce ma soprattutto devastato nella mente, e quelle su Lioba Braun, l’illustre mezzosoprano che qui ben trasforma il Paggio nell’anziana governante di casa. La regina dello spettacolo, infine, è l’artista che l’attuale sovrintendente della Scala conosce tanto meglio per avergli salvato parecchie serate straussiane mentre ancora dirigeva la Staatsoper viennese. Così avvenne, per esempio, in un’Elektra del 2015 (parte eponima: voce a palate e fraseggio fine [leggi la recensione]), in un Rosenkavalier del 2017 (Marescialla: matronale, insolita, originale [leggi la recensione]) e in una Frau ohne Schatten del 2019 (Nutrice: perfida e tonante come altra mai [leggi la recensione]); di volta in volta, la cantante subentrò sempre all’ultimo momento e diede puntualmente filo da torcere a una più celebre collega. Fatto sta che, in questa Salome, Linda Watson si regala un cameo nei compiaciuti panni regali di Herodias, e ogni volta che compare all’orizzonte magnetizza, ammirati, tutti gli occhi e gli orecchi del pubblico, mai risparmiandosi nella musica, mai eccedendo nella parola e nel gesto, mai dimenticando le astuzie dell’autoironia, mai sferrando a vuoto la coda dello scorpione canoro e attoriale.


 

 

 
 
 

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