Čajkovskij alla prova televisiva
L’Evgenij Onegin andato di recente in scena al Teatro alla Scala attende la trasmissione su Rai5 e risveglia qualche considerazione su un nuovo allestimento assai problematico, dalla decentrata regìa di Mario Martone a una lettura musicale ove la cittadinanza russa non è garanzia della qualità dovuta nel massimo teatro italiano.
MILANO, 22 febbraio 2025 – Non è detto che passare per la radio o la televisione sia il meritato premio per distinguere gli spettacoli migliori; non foss’altro, poiché l’impegno a trasmettere avviene in generale prima di conoscere l’esito degli spettacoli stessi. Poi, soprattutto, bisogna fare i conti con gli aspetti economici dell’operazione: spettacoli diversi hanno differenti impatto e spendibilità a seconda del titolo, dell’autore, del proprietario, dell’istituzione, degli interpreti, del momento, dell’emittente, dell’utenza e così via; non sempre la grande arte si presta a divenire con agio un prodotto commerciale, e non sempre la paccottiglia è arginabile su un mercato ove diviene gramigna culturale: anzi. L’inquietante premessa è alla differita programmata per oggi, 28 marzo, sul canale Rai5, di Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Čajkovskij, come andato in scena al Teatro alla Scala, di recente, per sei recite dal 19 febbraio all’11 marzo. In quegli stessi giorni avveniva l’avvicendamento, alla sovrintendenza nonché alla direzione artistica del massimo milanese, tra Dominique Meyer e Fortunato Ortombina, e gli interlocutorii, modestissimi, preoccupanti assetto ed effetto di quella produzione hanno dato di che riflettere sulle somme da tirare intorno alla dirigenza uscente e sulle speranze da riporre, invece, in quella entrante.
Problematico risulta anzitutto il nuovo allestimento con regìa di Mario Martone, scene di Margherita Palli, costumi di Ursula Patzak, coreografia di Daniela Schiavone e luci di Pasquale Mari: la componente visiva attua alla perfezione un’idea drammaturgica che tuttavia non persuade. La trasposizione è infatti non solo temporale e spaziale (dalla prima metà dell’Ottocento alla seconda del Novecento, da ville e palazzi ai confini tra periferia industriale e agricoltura intensiva), ma anche e soprattutto sociale, dunque più scabrosamente concettuale: Tat’jana, investita di un’analitica maturità che ne erode la spontaneità innocente, diviene un’isolata e incompresa divoratrice di libri nel mezzo di una comunità caotica, violenta e volgare; il cavalleresco e tragico duello tra Onegin e Lenskij scade – la soluzione, va però detto, morde la mente – a una malavitosa e alienata roulette russa; l’aristocratica casa pietroburghese dell’atto III sembra invece una gintoneria con disinibito giro di droga e prostituzione, sicché in essa sfugge il come di un’adulta trasfigurazione di Tat’jana. In un tale particolare orizzonte che non perviene a nitida conclusione, si perde la cogenza di contenuti che tocca la biografia di ciascuno: il primo amore, la disillusione, la nuova vita; l’amore rifiutato, il ripensamento, l’inutile rimpianto.
La lettura di questo Evgenij Onegin pare tanto più brutalistica per via dell’affiancamento, alla regìa martoniana, della concertazione di Timur Zangiev: monocorde e in ciò spiazzante, lutulenta e in ciò sciatta, muscolare e in ciò vana; povera d’indagine, atmosfera e narrazione; miracolosamente capace di annullare le sfumature, i paesaggi e i pensieri che pure Čajkovskij ha consegnato come testo espressamente scritto e non come suggestione da intuire per genio. Succede così che l’Orchestra e persino il Coro della Scala mostrino inedite tracce di demoralizzazione. Succede così che ci si chieda, anche, per quale ragione artistica le scene occidentali stiano attualmente regalando – o almeno consentendo con troppo benevolo sconto – un’ubiqua, subitanea e florida carriera al tutt’altro che messianico collaboratore di Valery Gergiev: non sarà che qualcuno debba tenere calda la sedia a un rinnegato braccio destro del dittatore russo, in attesa che la guerra finisca e che il mercato musicale possa tornare agli affari d’oro dei tempi passati? Il discorso è palesemente delicato, mentre, se si apre l’agone vociologico, la questione può sconfinare presto nel penoso.
Persino chi si aggira oggi sui trenta-quarant’anni può conservare memoria nitida di quando Evgenij Onegin si eseguiva, in Italia, a suon d’interpreti di riferimento internazionale quali Mirella Freni, Paolo Coni e Nicolai Ghiaurov: essi dimostravano come davvero il lascito musicale russo fosse non l’appannaggio di una nazione, ma un bene dell’umanità tutta. In quest’ultima produzione alla Scala, invece, la russa Aida Garifullina dispensa una Tat’jana querula e flebile, mentre il russo Alexey Markov propina un Onegin rigido e livido; nessuno dei due manifesta interesse e risultato nel mettere a punto l’imprescindibile evoluzione psicologica sulla quale si basa, del resto, il senso stesso del capolavoro di Čajkovskij. Quanto al Principe Gremin, una parte consistente di fatto in una sola ma favolosa aria, il russo Dmitry Ulyanov riesce, col suo sgraziato e tutt’altro che principesco vocione, a confondere il chiaro apprezzamento della linea melodica, tanto il brano è da lui vergognosamente sviato fuori tono. Non basta, insomma, essere russi, benché Dmitry Korchak, come Lenskij, erga al contrario un monumento all’arte della modulazione la più tecnicamente fondata e la più retoricamente ispirata. Con lui, i migliori in campo restano così i tre sonori, esperti, timbrati mezzosoprani: Elmina Hasan come Ol’ga, Alisa Kolosova come Larina e Julia Gertseva come Filipp’evna. Le videocamere e i microfoni di Rai5 avranno saputo essere d’aiuto al resto?
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