A volte ritornano

di Luca Fialdini

La “Tosca del centenario” a firma del Teatro del Giglio di Lucca approda – dopo un opportuno cambio cast – al Verdi di Pisa.

PISA 21 marzo 2025 – Anche se il 2024 ci ha liberati della sua presenza, le iniziative legate al centenario pucciniano non sono ancora tramontate e, dopo lo scorso novembre, la coproduzione di Tosca con capofila il Teatro del Giglio di Lucca prosegue nel proprio calendario di rappresentazioni: prima il Goldoni di Livorno e poi il Verdi di Pisa, seguirà l’Alighieri di Ravenna.

Essendo passati solo tre mesi, in questa sede non si farà cenno della componente visiva della produzione; le nostre analisi della regia di Luca Orsini, delle belle scene di Giacomo Andrico, dei costumi di Rosanna Monti e del light design di Tiziano Panichelli rimangono inalterate, esattamente come sono state espresse nella scorsa recensione sia sugli indubbi meriti, sia sulle perplessità. Cionondimeno, si riscontra una tendenza nelle produzioni dei teatri di tradizione ben esemplificata da questa Tosca, cioè un grande divario di spesa fra parte visiva e parte musicale (si vedano anche lo Cheniér pisano e la Vestale di Jesi). Il discorso è di particolare complessità e non si ha intenzione di banalizzare il lavoro di molti: con le finanze a loro disposizione, i teatri di tradizione in più di un’occasione compiono autentici miracoli ed è pacifico che negli ultimi anni la qualità media delle produzioni abbia conosciuto un sensibile incremento, ma non è infrequente che in fase produttiva si attribuiscano maggiori risorse all’allestimento e la componente musicale debba accontentarsi delle rimanenze. Se lo chiamiamo «teatro musicale», significa che alla musica appartiene un peso specifico determinante nel buon esito dell’operazione; va bene pensare all’evento-contenitore, anche nella misura di appetibilità per il pubblico, ma il suo contenuto non deve essere trascurato.

A riprova di questo, il comparto tecnico ha funzionato molto bene (a eccezione del cannone che nel primo atto ha dimenticato di sparare, ma Cavaradossi e Angelotti l’hanno udito ugualmente) e sortendo anche un felice effetto in rapporto uno a uno con la prima del 29 novembre scorso, mentre l’oggetto musicale ha scricchiolato esattamente negli stessi punti, addirittura è rimasto lo sbandamento nelle scale di sedicesimi fra «Melas è in fuga» e «Vittoria!». Henry Kennedy è senz’altro armato delle migliori intenzioni, come si può intendere anche dalla nota nel programma di sala, ma il risultato lascia molto a desiderare. Spesso viene meno l’equilibrio fra palco e buca con un’orchestra che suona troppo forte (e in questo la generosa acustica del Verdi non aiuta) e se da una parte è pur vero che il podio è molto attento ai cantanti e alle loro invenzioni, dall’altra perde completamente la bussola di quello che dev’essere il risultato orchestrale in un’opera di Puccini: il suono non è mai nitido, non è mai cristallino e non c’è mai quella filigrana che consente di apprezzare una linea strumentale nell’insieme. L’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini nella globalità della partitura suona assai bene, in particolare si apprezzano la qualità dell’intonazione, il piglio sanguigno, la capacità di restare sempre abbastanza compatti e un’efficace invenzione coloristica, tuttavia si avverte la mancanza di una guida con una chiara idea interpretativa. Ottimo anche il Coro Arché preparato da Marco Bargagna che si impone con facilità nella goduriosa scena del Te Deum; risultato dal segno positivo anche per il Cori di Voci Bianche Puccini 100, il Coro di Voci Bianche della Cappella di Santa Cecilia di Lucca e il Coro di Voci Bianche della Scuola di Musica “G. Buonamici” di Pisa, rispettivamente preparati da Angelica Ditaranto e Niccolò Bartolini: corretti al netto di qualche acuto un po’ troppo garrulo e in particolare si segnalano per la buona presenza scenica.

Si confermano anche alcune delle criticità rilevate all’epoca della prima, dal Pastorello di Dalia Spinelli che per eccesso di gentilezza si può definire acerbo, al carceriere poco incisivo di Paolo Breda Bulgherini fino a Nicolò Ceriani che infarcisce il suo Sagrestano di qualsiasi trovata macchiettistica possibile, della serie «se proprio dobbiamo cadere, tanto vale sprofondare». Eugenio Maria Degiacomi risulta equilibrato nel suo Sciarrone, mentre se Alfonso Zambuto non può vantare chissà quale generosità di emissione, possiede in ogni caso abbastanza mestiere per caratterizzare in modo riuscito il suo Spoletta. Si ribadisce il giudizio positivo su Omar Cepparolli come Angelotti: lo strumento ha un timbro pregevole ed è ben sfogato nell’emissione, inoltre si apprezza il gusto di una recitazione senza tanti orpelli.

Se il cast dei comprimari è rimasto invariato, ci si trova di fronte a tre protagonisti del tutto nuovi e con ragione. Alcune delle problematiche evidenziate nella recita lucchese riguardavano la coppia Tosca/Cavaradossi, che difatti dopo il debutto è stata cambiata e con vantaggio dell’esecuzione, mentre l’avvicendamento tra Massimo Cavalletti e David Cecconi nelle vesti di Scarpia era stato già stabilito in prima battuta.

Vincenzo Costanzo non riesce a convincere come Cavaradossi. Si rileva un certo impegno e almeno un risultato apprezzabile c’è, vale a dire l’aria «E lucevan le stelle» in cui il tenore investe molto sull’espressione, traendo da questo un’interpretazione sicuramente sentita e di buon effetto; la questione è che per la maggior parte della recita Costanzo sembra più preoccupato di dimostrare che abbia la voce invece di usarla per esprimere qualcosa. Preoccupazione invero molto tenorile, tanto più che il suo non è uno strumento che colpisca per emissione o facilità nel registro acuto (in cui si sente molto la gola), ma ha assolutamente tutte le carte in regola per incassare riuscite migliori se per l’intera recita avesse affrontato il ruolo con la stessa forma mentis dell’aria del terz’atto. Nei primi due atti, invece, si è limitato a cantare quasi solo forte e ad allungare sistematicamente qualsiasi nota andasse sopra il sol oltre l’ultimo rigo anche in momenti davvero inopinati, come il si di «la vita mi costasse». Bizzarrie anche nelle scelte interpretative: chi scrive non ricorda di aver mai visto Cavaradossi dare le spalle a Scarpia e allontanarsi da lui alle parole «Scarpia, carnefice!».

Serata molto strana per David Cecconi, che abbiamo già applaudito sia in altri ruoli, sia nei panni del barone Scarpia. Da parte sua ci sono state molte défaillance sul testo, portandolo anche a compiere errori davvero banali, come pronunciare «ha più dolce sapore» invece di «ha più forte sapore», il che è piuttosto strano data la cura che solitamente riserva alla parola scenica; piuttosto debole anche sul versante interpretativo: come d’uso, Cecconi tratteggia uno Scarpia dal contegno nobile e austero, con pochissime concessioni ai lati più viscidi e poco controllati, ma in questo caso il risultato è piuttosto freddo; in breve non si avvertono il senso di minaccia o di paura che dovrebbero aleggiare attorno a questo personaggio. Per contro, la realizzazione della parte vocale è impeccabile come sempre. Volume significativo, omogeneo nell’emissione, canto grintoso con grandissimo scrupolo sul fraseggio, si assiste anche a un buon lavoro chiaroscurale sulle mezze voci e – nemmeno a dirlo – c’è un’ottima proiezione nel registro acuto, anche sui molti fa (non solo attorno al Te Deum) e sul sol bemolle di «Mia!».

Molta attesa per Marily Santoro nel ruolo del titolo e le aspettative non sono state affatto disattese. Il soprano reggino incarna una Tosca lontana dallo stereotipo ingessato della diva, piuttosto la sua Floria è giovane, dirompente, appassionata, ma anche contraddittoria nell’eterno contrasto di un carattere forte e allo stesso tempo tanto ricco di fragilità. Si può dire che l’interprete sia ancora molto giovane, che una parte del genere necessita di maturazione e per carità, è tutto vero, ma sulle tavole del Verdi Santoro ha dato dimostrazione di doti davvero non comuni in termini sia di interpretazione, sia di controllo tecnico, assurgendo a protagonista incontrastata della rappresentazione. Si trova molto a suo agio nei momenti più intimi, amorosi come introspettivi, ma ha pure un’eccellente capacità di accendersi nel momento giusto, rivelando un temperamento sanguigno e indomito. Accanto a filati superbi e rotondità conservate anche nel registro acuto, Marily Santoro sfoggia una gamma espressiva di prim’ordine che, unita all’evidente capacità di controllo, le rende possibile anche far virare il proprio dalla naturale dolcezza riesce a virare su toni particolarmente aspri nel finale del secondo atto. Il soprano sfoggia anche un ottimo gusto musicale, tale da guidarla verso soluzioni meno scontate e soprattutto più raffinate; a mero titolo di esempio, valga il «perché me ne rimuneri così» al termine del «Vissi d’arte»: niente messe di voce in zona applausi, niente forzature di pessimo gusto, solo un espressivissimo filato (che combacia perfettamente con il «singhiozzando» indicato in partitura) che ci conclude con un mi bemolle in pianissimo di incomparabile malinconia.

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