L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Verso la luce

di Roberta Pedrotti

Con un'organizzazione impeccabile, la riapertura dei musei a Brescia offre l'opportunità di visitare gratuitamente i tesori cittadini, prima fra tutti la Vittoria Alata, appena restaurata e ricollocata in un nuovo allestimento di Juan Navarro Baldeweg. Sebbene la festa per il ritorno del capolavoro bronzeo sia stata ostacolata dalla pandemia, la situazione attuale rende ancora più prezioso e significativo il ricongiungimento fra l'opera, la città, l'arte, il pubblico.

Foto. La Vittoria Alata: nuovo allestimento Foto. Tempio Capitolino e parco archeologico Foto. La Vittoria Alata: il restauro Foto. La Vittoria Alata: archivio storico Foto. La Vittoria Alata: gli scatti di Renato Corsini Foto. Emilio Isgrò: Incancellabile Vittoria Foto. La Vittoria Alata: viaggio di un mito Foto. Topolino e la Minni Alata Foto. La Vittoria Alata: filatelia e immagine Tutte le pagine

Non appena il passaggio in zona gialla l'ha resa accessibile, in poche ore ha registrato il tutto esaurito. Quando si è esteso l'orario posticipando la chiusura dalle 18 alle 21, le nuove prenotazioni si sono bruciate in un istante. Eppure, l'apertura è possibile solo nei giorni lavorativi. Eppure, i turisti non possono varcare nemmeno i confini regionali (figuriamoci i nazionali!). Eppure, i bresciani la conoscono a memoria, da sempre, il simbolo della città riprodotto infinite volte per souvenir, stemmi, onorificenze. 

È la Vittoria Alata a esercitare questo fascino irresistibile. Dopotutto, in origine era una Venere; lo era, almeno, il modello dell’Afrodite di Capua, che probabilmente in un laboratorio del Nord Italia, verso la metà del I secolo d.C., viene ripreso, vestito, dotato di ali, di un elmo di Marte su cui poggiare il piede e di uno scudo su cui iscrivere il nome del vittorioso mecenate. Collocato nel tempio dedicato alla Triade Capitolina nella fiorente Brixia - cui Catullo aveva già riservato versi affettuosi o piccanti - il bronzo si salva miracolosamente dalle fornaci che, per necessità di metalli o cecità antipagana, inghiottono dalla tarda antichità tanti altri capolavori: messa al sicuro in un’intercapedine delle mura del tempio, la Vittoria perde elmo e scudo, ma riposa per oltre mille anni insieme con altri bronzi, cornici e una serie di mirabili ritratti. Riposa fino a tempi migliori, quando la riscoperta di Pompei, insieme con illuminismo e neoclassicismo, hanno ormai consolidato l’interesse per l’antichità greco romana, e se sotto le piramidi Francia e Inghilterra fanno a gara per fondare la moderna egittologia, ai piedi delle (pre)Alpi le falde del colle Cidneo cominciano a rivelare i loro tesori. Un tempio, un teatro, un foro… E, dal tempio, il 20 luglio 1826 la Vittoria Alata rivede la luce. Non passa inosservata, tant’è che dissemina copie in tutto il mondo, Napoleone III, a Brescia dopo la battaglia di Solferino, ne chiede una per il Louvre (mentre un’altra, in gesso, va ad adornare la sua abitazione privata). D’Annunzio non è da meno, le dedica un’ode come aveva già fatto Carducci e ne commissiona una replica per il Vittoriale. Lei, intanto, scampa due guerre mondiali, resta nume tutelare della sua Leonessa, ormai familiare sotto la sua patina verderame che la riveste, prima nel museo del Capitolium (già Museo Patrio), poi nel nuovo allestimento del complesso di Santa Giulia, a pochi passi dal foro. Dopo secoli lontano da ogni sguardo, prima di festeggiare i duecento anni dalla scoperta del 1826, la Vittoria si affida alle cure dell’Opificio delle pietre dure di Firenze. L’interno deve essere ripulito da materiale organico; dalla patina superficiale riemerge il bronzo con i suoi riflessi e le sue sfumature; lo scheletro ottocentesco che la sosteneva, deteriorato, viene sostituito con una nuova struttura in materiale antisismico. Non si tratta, però, solo di tutela, conservazione, restituzione all’antico splendore: il restauro racconta una storia, restituisce un’identità, cancella le ipotesi sull’Afrodite orientale a cui sarebbero state applicate delle ali e conferito uno scudo in luogo dello specchio per farne una Nike. Si era creduto che la Vittoria bresciana potesse essere un riadattamento di un’opera nata diversa, si conferma invece che tutti gli elementi che la compongono sono nati insieme, nello stesso laboratorio, per quello scopo, quella forma. E se oggi ha perso il nome di un committente svanito nella storia - anche se gli siamo grati - con lo scudo dove era inciso, se ha perso gli attributi marziali, sembra solo una parte di una storia ininterrotta: l’arco delle ali si completa in un abbraccio che non ha più bisogno di un’arma da cingere. Addirittura, da alcune angolazioni, sembra che il piede sospeso suggerisca un passo di danza.

Mille volte riprodotta e replicata, l’opera è unica ed è viva. Non nell’incavo buio che ce l’ha preservata nei secoli, ma nel contatto con lo sguardo presente, interagendo con un pubblico esiste l’arte, ogni arte. Non importa se pensiamo di riconoscerne a menadito la sagoma, perché l’aura dell’unica, originale, hic et nunc è solo lì in quell’istante. Chi vuole creda pure che le lacrime e i mancamenti siano iperboli e letteratura, ma l’esperienza potrebbe sovvertire il pregiudizio anche dell’animo più cinico. I riflessi del marmo sotto la luce sembrano suggerire un movimento sospeso, un respiro, un palpito in quel fruscio di vesti; il chitone d’un tessuto prezioso, finissimo, dalle mille pieghe impalpabili che sussultano sulla pelle, l’himation più pesante scivolato sulle ginocchia. A ogni sguardo, la Vittoria Alata sempre diversa, ma è sempre lei, il pezzo unico, forgiato per essere tale. È la Vittoria Alata delle stampe realizzate a ridosso della scoperta, in cui sembra una marmo neoclassico, delle fotografie antiche in gruppo con il personale del museo, come una di famiglia, è la signora verderame visitata nell’infanzia, è la fenice rinata e fiammeggiante ora su un piedistallo cilindrico di marmo di Botticino. Sì, perché a fare l’opera d’arte è anche il nostro sguardo, il nostro muoverci intorno a essa, la nostra esperienza e la nostra curiosità; è anche il contesto, l’attualità, la luce, lo spazio. Ora, la Vittoria Alata è sola della terza cella del Capitolium. Quasi sola, a dire il vero, perché sulla parete opposta sono esposti i frammenti di cornici bronzee che hanno condiviso il sonno millenario e provvidenziale e sembrano disegni geometrici di antichi mosaici o installazioni contemporanee, linee quasi astratte che da vicino rivelano motivi floreali, fregi, dettagli cesellati. Il colore tenue dello stesso marmo del piedistallo richiama le strutture originarie del tempio, il pregio della cella centrale, rivestita di epigrafi, mentre l’antro della Vittoria è spoglio, libero, arioso. è tutta luce, perché di luce è anche il suo nuovo scudo, il raggio proiettato dall’unica lampada posta sul soffitto. Un disco solare o lunare che permetterà  diverse modulazioni, giochi luminosi di colori e riflessi.

L’allestimento affidato all’architetto e artista figurativo spagnolo José Navarro Baldeweg è parte integrante del capolavoro, perché, dopo il lungo sonno nell’oscurità, ne ospita e rappresenta la piena rinascita nel movimento naturale, nella pura essenzialità, nel rapporto con la storia, il contesto, l’attualità. Richiama i marmi preziosi del territorio e delle architetture in cui si colloca, richiama l’estetica delle vicine domus dell’Ortaglia, ma anche l’arte moderna, l’astratto. Si arricchisce di sottrazione, perché basta a se stessa l’aria dorata in cui iscrivere il bronzo vivo della Vittoria, le linee pure delle cornici. Non serve altro, perché come la scoperta eclatante del 1826 sparse la sua eco oltre i confini dell’Europa, affermando un altro, aggraziato modello di Nike che non fosse di Samotracia, così oggi la Vittoria Alata si irradia dalla sua cella splendente. Si riflette nei reperti della sua abitazione precedente - il museo cittadino di Santa Giulia (dove è allestita anche una mostra dedicata a Navarro Baldeweg) - e nel parco archeologico; si riflette nell’opera di Emilio Isgrò Incancellabile Vittoria, che celebra la sagoma inconfondibile e indelebile del capolavoro nella fermata Stazione FS della metropolitana di Brescia. Si riflette anche nella filatelia e nel fumetto. Roberto Gagnor, fra le firme migliori nella scuderia disney italiana, è specializzato nel trattare con trame avvincenti e colta, leggiadra ironia (gli dobbiamo un impagabile Pico de Paperis rapper in latino) anche la storia dell’arte: la sua Topolino e la Minni Alata (disegni di Valerio Held, Topolino numero 3391 del 18 novembre 2020) ripercorre la tradizione che immaginava la Vittoria Alata come una Venere camuffata, ma poco importa, perché se creazione di fantasia deve essere, la leggenda si presta bene all’avventura, non manca di riferimenti storici e ammiccamenti attuali (l’anno dei quattro imperatori, le fake news), arriva agli scavi del 1826 in tavole che un bresciano difficilmente potrà leggere a ciglio asciutto.

Che capolavoro sia la Vittoria Alata lo raccontano le sue copie, le sagome mille e mille volte riprodotte, l’ombra ricavata da linee cancellate o le fattezze di una topolina antropomorfa. Lo raccontano e non ne usurano l’aura, perché che capolavoro sia la Vittoria Alata lo dice la sorpresa continua dell’incontro con un riflesso, un drappeggio, un abbraccio sospeso, un sospiro mozzato. 

E lo dice quel tutto esaurito per la prima apertura offerta alla città in un momento critico (sia lode all'amministrazione e a tutte le realtà che gravitano intorno a Brescia Musei e la sostengono). Anzi, proprio nei momenti critici ci rendiamo conto che quello di cui più abbiamo bisogno sono i capolavori e la loro aura.

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