L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il tavolo zoppo e i quarti di bue

di Roberta Pedrotti

Debutta al Festival Verdi la prima versione di Simon Boccanegra, che conferma la sua debolezza nell'impari confronto con la revisione successiva realizzata con Boito, ma nondimeno risulta interessante alla prova scenica in un contesto come questo, per meglio conoscere l'evoluzione creativa verdiana. Salda e ammirevole per dedizione la prova del cast, del coro e dell'orchestra nella concertazione di Riccardo Frizza; meno convincente lo sviluppo dello spettacolo con la regia di Valentina Carrasco.

PARMA, 21 settembre 2022 - Verdi non lo voleva raddrizzare quel tavolino zoppo; Ricordi dovette insistere perché si rimettesse mano al Simon Boccanegra, l'opera che a Venezia nel 1857, con libretto di Piave, non aveva riscosso esattamente un trionfo. Il restauro del tavolino fu anche il cavallo di Troia per dare vita alla prima collaborazione teatrale fra Verdi e Boito, che servì al compositore la soluzione ai problemi della prima stesura. Nel 1857, infatti, non c'è la scena del Gran Consiglio, non c'è il monologo “Me stesso ho maledetto” di Paolo: l'antagonista è poco più che una comparsa; Simone non matura come politico carismatico d'ampie vedute negli esteri e negli interni, ma resta il corsaro imprigionato dal serto dogale che seguita a rimpiangere il mare e l'amore. Nella prima versione abbiamo una vicenda privata inserita in uno scontro politico; nella seconda una grande riflessione politica che coinvolge il privato, l'umanità nel particolare e nel sociale.

Basta, però, elencare le differenze macroscopiche per capire la genesi di un capolavoro? Nel 1857 il prologo si apriva con un preludio non troppo ispirato (motto introduttivo, tema del mare e dell'amore, tema della sommossa), Amelia faceva seguire una cabaletta virtuosistica a “Come in quest'ora bruna”, Fiesco e Adorno cantano un duettino diverso e molto più bellicoso, il finale primo è completamente differente, manca il monologo di Paolo Albani. Non basta, perché anche nei numeri comuni il lavoro di riscrittura è certosino, soprattutto ma non solo nel prologo e nel primo atto: Boito lima i versi, Verdi ritocca la strumentazione, sposta un accento, cambiando mezza battuta fa prendere il volo a una melodia prima un po' goffa o anche soltanto più convenzionale. Entriamo nel laboratorio verdiano senza scoprire l'interesse teatrale che può suscitare ancor oggi il primo Macbeth, ma per toccare con mano quel che non andava ed è stato cassato o sostituito, quel che non si era ancora compiuto ed è stato messo in moto. Perché, insomma, nel 1857 abbiamo un “tavolino zoppo” e nel 1881 un capolavoro.

Il primo Simon Boccanegra non farà giro nei teatri, ma sta bene rispolverarlo in un festival che deve far conoscere in profondità un autore, non solo ripeterne i trionfi conclamati.

Caso vuole che il debutto parmigiano della prima versione di quella che sarà una delle opere più politiche di Verdi, la più profonda nell'analisi dei rapporti di potere fra individui, istituzioni e classi sociali, cada proprio in coincidenza con le elezioni politiche. Allora, urge combinare i due impegni e approfittare – seppure un tantino fuori età - all'anteprima dedicata ai giovani sotto i trent'anni. Così, si gode anche dell'atmosfera fra giovani melomani e neofiti curiosi ed entusiasti, magari ignari della grandezza della seconda versione, ma prontissimi nell'immergersi fra le diatribe di casa Fieschi, Adorno e Boccanegra.

Non è il mormorio soffuso delle onde notturne dai carrugi a introdurci nelle macchinazioni per l'elezione del nuovo doge, ma il perentorio incipit del preludio che Riccardo Frizza attacca senza negarne la natura un po' rustica. Cerca la tinta cupa e procede a passo spedito per dipanare onestamente pregi (in nuce) e difetti della partitura, il suo dibattersi in un linguaggio che si sta rinnovando, ma pare ancora nei rovelli degli anni di galera, a dimostrazione che le fasi di un percorso artistico non si possono ridurre a schemi rigidi.

La Filarmonica Toscanini rende assai bene questi tratti ruvidi, che non vanno ingentiliti o nobilitati, bensì veicolati nelle atmosfere cupe del dramma, nella costruzione progressiva dei temi e delle forme protesi a quel che ancora non si realizza appieno.

Il cast è ben assortito e quasi sembra uno spreco la nobiltà di Vladimir Stoyanov per un personaggio introverso e sconfitto qual è questo primo Simone, sempre nostalgico, fuori posto, ostinato nel perdonare – novello Tito – come mezzo di distensione. Stoyanov fa sì che la malinconia non sfoci in monotonia, che la dolcezza si esprima al momento giusto senza che venga meno il ricordo della fierezza del corsaro. Ancora privo dello spessore demoniaco che gli conferirà Boito, il Paolo Albiani di Devid Cecconi finisce invece più che altro per maramaldeggiare da bieco capopopolo.

Riccardo Zanellato è il Fiesco austero che questa drammaturgia esige, per fortuna già comprendendo il pianto finale condiviso con Simone.

Chi, però, si impone nel cast, è la coppia dei giovani. Piero Pretti è un notevolissimo Gabriele Adorno: la sua grande aria, già compiuta in questa prima versione, gli dà modo di esprimere un cantabile virile e sentito, un impeto fiero, un'articolazione del testo franca e consapevole senza cadute di gusto, una vocalità compatta e sempre affine al dettato verdiano. Roberta Mantegna deve combinare il lirismo pieno, l'estasi e la drammaticità di Amelia/Maria con la leggiadra coloratura della cabaletta “Il palpito deh frena”: è chiaro che in questa versione il personaggio debba alleggerirsi (tra l'altro Piave parla solo di “alcuni lustri” e, come Boito, non di venticinque anni fra Prologo e primo atto, quindi potremmo immaginare una fanciulla più giovane, seppur di carattere forte e pugnace) e il timbro di Mantegna, con il suo metallo lucente, rende bene un che più fanciullesco, una parentesi anche spensierata, senza abdicare alla decisione e alla consapevolezza della creduta figlia dei Grimaldi.

Completano il cast – ancora assente il Capitano dei balestrieri inserito da Boito – il Pietro di Adriano Gramigni e l'Ancella di Chiara Guerra (nota a margine, la locandina veneziana del 1857 e le incisioni finora disponibili presentano in sua vece un servo maschio), insieme con il coro del Regio che, oltre a cantare assai bene nell'esultanza, nella rabbia e nel compianto, offre anche un'eccellente prova teatrale mescolandosi con naturalezza a mimi e tersicorei. La regista Valentina Carrasco li mette in evidenza per porre l'accento sulla lotta di classe sottesa alle vicende private del doge corsaro. Siamo in una Genova proletaria in cui i portuali rivendicano i loro diritti. Il mercato delle carni è il centro della lotta politica, il luogo dove freme il malcontento, si cementa la solidarietà sociale, ma si fa strada anche chi vuole indirizzare queste forze a proprio vantaggio. Un mondo ambiguo dove tutto è ferocia e carne da macello (dunque, ben in vista nei quarti di bue appesi mezz'aria). Il finale primo, che qui è adunanza cittadina e non assemblea politica, si fa con grigliate e balli come alle feste dell'Unità di una volta. Interessante, in partenza. Peccato che poi, come spesso avviene con Carrasco, l'idea non continui a svilupparsi con la stessa tensione. Alla fine, vediamo carni appese con indifferenza, come se potesse esserci qualsiasi altra cosa. Non troviamo una recitazione che faccia la differenza, anzi, notiamo qualche debolezza di troppo fra l'Amelia gaia fioraia nel container di famiglia, Simone che si assopisce, in assenza di scranni adeguati, sul bancone della macelleria, la solita citazione del Quarto stato, il coro che rende omaggio al defunto doge prima che Fiesco ne annunci la dipartita. Spunti interessanti non mancano, ma, ancora una volta, lo spettacolo non riesce a convincere appieno, a trovare una sua forma compiuta e coerente, quandanche discutibile.

All'anteprima per i giovani, il successo è completo. Qualcuno fra i ragazzi si interroga e si scambia opinioni con la serenità e l'apertura mentale che manca a tanti loggionisti di vecchia data: “non mi sento coinvolta, sarà per questa ambientazione?”, “No, a me piace, funziona”, e via di questo passo, salutando poi tutti con calorosi applausi. Alla prima, trasmessa per radio, l'accoglienza si divide fra il plauso per direttore e cantanti e contestazioni per Carrasco e i suoi collaboratori (Mauro Tinti, costumi, Martina Segna, scene, Ludovico Gobbi, luci).

Nella sua prima forma ancora imperfetta, torna così in scena a Parma, l'opera più politica di Verdi, quella dove il popolo chiede giustizia e riconoscimento, ma si lascia manipolare da chi nell'ombra se ne vende il favore. E ancora non si piangeva sulla feroce storia gridando pace e amor, non si constatava amaramente la volubilità delle plebi, non si cercava di superare i confini nella patria comune del Mediterraneo. Verdi vedeva lontano, vedeva lontano Boito (un po' meno Piave). Avremmo bisogno di ascoltare di più Simon Boccanegra, con più attenzione.


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