L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’attrice ispiratrice

di Gina Guandalini

Nel centenario dalla morte di Eleonora Duse, un ricordo che intreccia la sua vicenda umana e artistica con quelle di Emma Calvé e Gemma Bellincioni.

Cento anni dalla morte di Eleonora Duse - parte II

Il 21 aprile di cento anni fa moriva in un albergo di Pittsburgh, in Pennsylvania, durante una tournée trionfale, Eleonora Duse. Era nata a Vigevano nel 1858 in una compagnia di attori girovaghi veneti. Wikipedia inglese accoglie seriamente l’affermazione, inviata nel 1956 a un quotidiano di Washington, che il cognome originario fosse Dusian, essendo la famiglia armena. Questo non risulta in nessuna altra fonte o biografia, mentre il recente e accurato studio Eleonora Duse: a Biography, della statunitense Helen Sheehy, sostiene che il nome Duse sia originariamente francese e significhi “demone” o “spirito”. Ulteriori ricerche non esistono. Certo è che Luigi Duse, nonno paterno della grandissima attrice, era nato a Chioggia nel 1792, Fu attore comico di buon livello, principalmente in dialetto veneziano, e creò una maschera, l’imbroglione Zacometto. George Sand assistette a un suo spettacolo nel 1843 e scrisse che era per certi versi superiore al celeberrimo Debureau (il mimo e funambolo ricreato da Jean-Louis Barrault nel film Les Enfants du Paradis di Marcel Carné).

Il genio drammatico salta una generazione, il padre di Eleonora è capo di una modestissima troupe teatrale girovaga. Eleonora Duse, buttata in scena a quattro anni nel ruolo di Cosetta in una versione teatrale de I Miserabili, vedrà il proprio nome su una locandina nella città di Zara, il 12 marzo 1863. La data di nascita di Gabriele D’Annunzio. Nell’anno 1900 farà scalpore il romanzo Il Fuoco, in cui l’Imaginifico racconta con pochi veli la sua storia d’arte e d’amore con la Duse, ribattezzata “la Foscarina”. “Io so che cosa sia la fame e che cosa sia l’approssimarsi della notte quando è incerto il ricovero” confessa Foscarina rivivendo il proprio passato. A quattordici anni, nel maggio 1873, una Duse ancora quasi bambina interpreta Giulietta all’Arena di Verona, e ricorda di avere sentito “la grazia” dell’investitura teatrale avvolgerla e innalzarla. D’Annunzio rielabora l’infanzia e l’adolescenza povere e vagabonde della Duse in modo così suggestivo che per decenni nessuno storico del teatro ha voluto fare ricerche approfondite; bastava quel romanzo. Il critico William Weaver ha avanzato il sospetto che non di Shakespeare si trattasse, ma di una versione del veronese Giuseppe Daldò.

La prima fase teatrale della Duse – che pure include un Alfieri e qualche Goldoni - è dunque una serie di melodrammoni antiquati, scritti da autori oggi finiti nell’oblio. Ma è l’epoca in cui “rappresentare il vero” in letteratura, nel teatro, nell’opera lirica, diventa l’aspirazione principale: il pubblico italiano ha fame e sete di un teatro più moderno e scottante. Gli autori francesi, non inceppati da concezioni borghesi o religiose – Victorien Sardou, Emile Augier e soprattutto Alexandre Dumas figlio – invadono le nostre scene. Pallida e malnutrita, ma straripante di energia nervosa, Eleonora fa sue queste creature colpevoli di amare fuori dal matrimonio e di difendere la propria libertà di amare; e ne incarna i palpiti, i fremiti, i sussulti, i rossori – che sa provocare a comando – e i ruggiti con un’efficacia che non ha precedenti o rivali. In seguito si scriverà di lei come della “regina dei nevrastenici”, “inarrivabile in ruoli nervosi o isterici”

Cavalleria rusticana , la pièce che Verga elabora dal suo scarno racconto, va in scena a Torino nel 1884 con la Santuzza della Duse; Giuseppe Giacosa, con il suo realismo crepuscolare, trova nella nostra attrice una interprete ideale. Il ruolo è cruciale nella evoluzione dell’arte rappresentativa della grande attrice: lotta contro i pregiudizi nei confronti delle donne, crea un legame particolare con gli spettatori. In totale contrasto con la concezione della tragedia siciliana, Verga elabora per le scene un suo racconto, Il canarino del Nr. 15, con il titolo In portineria. È vero che la pièce, ambientata in una portineria milanese e incentrata sulla silenziosa osservazione della felicità altrui da parte di una infelice giovane portinaia malata e paralizzata, anticipa in qualche modo il Simbolismo francese. Ma che sia l’uso suggestivo dei silenzi da parte della Duse attrice a ispirare la stesura teatrale di Verga, come è stato affermato, è discutibile. La commedia va in scena per la prima volta a Milano nel 1885 e riporta un grave insuccesso; la Duse accetta di riprenderla a Roma neldicembre 1886, ma il pubblico resta gelido davanti alle tristi meditazioni della giovane portinaia Màlia, ed Eleonora la toglie dal proprio repertorio.

Cominciano per la Duse le tournée all’estero e, come già è stato per Adelaide Ristori e Tommaso Salvini, la lingua italiana non è di alcun ostacolo a successi trionfali, addirittura di massa. Non è strano che l’esempio interpretativo della Duse ispiri e contagi anche gli interpreti operistici. Due grandi cantanti dell’epoca, la francese Emma Calvé e l’italiana Gemma Bellincioni, hanno come cavalli di battaglia due ruoli in cui la drammaticità e il canto di agilità coesistono: Ophélie in Hamlet di Ambroise Thomas per la Calvé e Violetta nel caso della Bellincioni. Sono belle e ambiziose, riflettono e indagano. Entrambe sono considerate l’alter ego operistico di Eleonora Duse.

Emma Calvé nasce nello stesso anno della Duse, il 1858, a Decazeville, piccolo città a nord-est di Toulouse nel dipartimento di Aveyron. È figlia di poveri contadini, che tuttavia la incoraggiano sempre a imparare e ad elevarsi. La famiglia si trasferisce per qualche anno in Spagna, per cui Emma è perfettamente a suo agio con la lingua spagnola. In Francia viene messa in un convento, dove diventa la piccola diva di tutti i cori, i saggi e le recite. Un tenore di nome Jules Puget prende a cuore le sue doti vocali e la vera e propria fame che per forza di cose soffre, fornendo a lei e alla madre (il padre era nel frattempo morto) polli e cotolette gratis. Una prima autobiografia della Calvé in lingua inglese, My Life, uscirà nel 1922, ma è solo un compendio di aneddoti. Nel 1940, due anni prima della sua morte, esce Sous tous les ciels j'ai chanté, che è tuttavia piena di inesattezze nelle date e nei fatti,

Non essendo figlia d’arte, la Calvé è sempre consapevole di dover imparare, imparare, imparare da tutti. A ventitré anni approda nell’atelier parigino di Mathilde Marchesi, forse la più grande scuola vocale di ogni tempo, impressionante per il numero di allieve di successo che la docente ha donato ai teatri di tutto il mondo. In questa galassia spiccano Nellie Melba, Sybil Sanderson, Mary Garden e Aglaja Orgeni (maestra di Margarethe Siems, a sua volta modello discografico per Joan Sutherland); ultima in ordine di tempo fra le allieve della Marchesi è Estelle Liebling, maestra di Beverly Sills. Secondo la figlia Blanche Marchesi, che tutto vede e tutto ascolta delle lezioni della madre, fino a prendere degnamente il suo posto, la Calvé si presenta come Madame Boellman ed è castamente pettinata à la Vierge, con il viso incorniciato da due lisci bandeaux. Ma presto ritorna senza fede nuziale, con il suo nome di nubile e un’acconciatura all’ultima moda.

Emma studia con profitto con la Marchesi per circa un anno. Ma sente che il lato interpretativo dei ruoli le sfugge ancora (la Marchesi la definisce “timida”). Su consiglio di Gounod la nostra eterna studentessa passa alla scuola di Rosine Laborde, già soprano di fama internazionale. A questo punto confonde le date: scrive di avere cantato Cavalleria rusticana di Mascagni alla Pergola di Firenze nel novembre di quel 1886 (l’opera è del 1890) con il tenore De Lucia. “Ho visto l’ammirevole Duse in questo ruolo, non saprei avere un esempio migliore”. Emma sarà comunque la prima Santuzza francese: nel 1891, Léon Carvalho, direttore dell'Opéra-Comique, la inviterà a interpretare Cavalleria. Lei decide di indossare, nonostante l’ostilità del teatro, i vestiti da contadina siciliana ed i sandali consunti che ha portato con sé dall’Italia. Sarà George Bernard Shaw, vedendo la sua Santuzza al Covent Garden, a confermare che è “irresistibilmente commovente e bella, e del tutto in grado di sostenere il paragone inevitabile con l’interpretazione della Duse di questo ruolo”

Quando Eleonora Duse ed Emma Calvé hanno sei anni nasce a Monza Matilda Cesira Bellincioni, detta in seguito Gemma. Figlia d’arte, di un basso e di un contralto, all’opposto della collega francese che è sempre alla ricerca di insegnamenti vocali, Gemma è fisicamente in teatro fin dai primi giorni di vita. Sente sempre cantare intorno a sé e canta anche lei. Come la Calvè passa alcuni anni un collegio, dove cerca ogni occasione per esibirsi in recite e improvvisazioni. Ovviamente studia con la madre; quindi, continuando a presentarsi in scena nonostante la giovanissima età, si perfeziona con il baritono Alberto G. Corsi, attivo per molti anni alla Scala e al Théatre des Italiens a Parigi (di lui la Gazzetta musicale di Milano elogia fra le altre doti, dettaglio interessante, “un gesto nobile e ragionato”)

Nel gennaio 1886 Verdi sta cercando l’interprete di Desdemona per l’Otello che compone in quegli anni. Il suo amico e librettista Arrigo Boito va alla Scala a vedere e ascoltare Gemma in Roberto il Diavolo, e a Verdi manda un pollice verso: “non è ancora un’artista e non so se lo sarà mai…non è una vera voce da teatro, ha un timbro magro che penetra nella folla senza occupar posto”. Segnala poi “una certa audacia fortunata che le viene, credo, dalla fidanza che ha nelle sue attrattive fisiche. Vero sentimento drammatico, vera spontaneità e potenza di accentuazione non mi pare che possieda. I suoi gesti mi sembrano insegnati dal maestro di mimica e il fraseggiare del suo canto dev’essere l’imitazione fedele di ciò che le insegnò un Lamperti qualunque…Tutto quello che fa sulla scena mi pare che sia una cosa chiesta in prestito a qualcun altro…C’è qualche cosa di musicale in quella ragazza. Qualche cosa, ma vero estro artistico non mi pare che ci sia…L’ho sempre guardata a cantare, ciò dimostra la grazia del suo volto e della sua persona e niente di più…Peccato!”

Questa celebre stroncatura di Boito è molto interessante. I vociomani impugnerebbero subito l’espressione “un Lamperti qualunque”: si tratta di uno dei massimi teorici e docenti di canto dell’Ottocento. La voce è definita “smilza” come l’attraente fisico di Gemma e l’interpretazione vocale e scenica risulta a Boito “costruita”. Un lettore di cent’anni dopo desumerebbe che Boito giudica Gemma Bellincioni scarsa vocalmente e artificiale come interprete. Ma seguire le istruzioni di Lamperti è cantare mediocremente? Il ruolo di Desdemona richiede ciò che richiede Alice di Robert le Diable? È Boito un esperto di canto? O non è piuttosto qualcuno che giudica una cantante proiettata verso la fine del secolo con i criteri del 1860? A questo punto soggiungo che nell’Enciclopedia Rizzoli-Ricordi del 1972 la voce “Bellincioni, Gemma” è liquidata in pochissime righe; l’autore, giudicando dallo stile, è certamente Rodolfo Celletti. Il vociologo ciociaro voleva forse mandare un messaggio: celebrità teatrale legata alla sua epoca, tecnica vocale insufficiente.

Torniamo a Emma Calvé. Qualche mese dopo quella visita di Boito alla Scala, nell’estate 1886, va in Italia per perfezionarsi nell’accento toscano e assiste a una recita della Duse nella Signora delle camelie. “Che rivelazione!” scrive Emma. “Ecco l'arte alla quale si deve aspirare. Non avrei mai creduto possibile che un essere potesse donare tanto di sé. Ella sembra appartenere a un’umanità più vibrante della nostra. Che accenti! Quale emozione comunicativa ! Non riesco ad andare a dormire senza aver gridato il mio entusiasmo alla mia mamma, che riposa nella camera vicina”.Dopo La moglie di Claudio di Dumas, Emma aggiunge “La sua bella voce dalle sonorità cantanti, la sua fisionomia ammirabile traduce con intensità tutte le sfumature di questo ruolo così complesso. Uscita dal teatro, sparisce, chiude la porta e lascia entrare solo pochissimi amici. E io che volevo chiedere di esserle presentata! Non oserò mai. Ella non si trucca neanche. Pallida, ardente, recita con una semplicità e una sincerità assolute. Nessuna artista è più affascinante, più coinvolgente, né possiede a un tale grado l’arte di commuovere. Ha degli occhi stupendi, delle mani da duchessa e un sorriso adorabile. È meglio che bella”.

Emma decide di seguirla, Va a Bologna, scopre in quale albergo è scesa e vi prende una camera anche lei, poi passeggia per i corridoi sperando di incontrarla; dopo la recita si unisce alla folla che si accalca all’uscita degli artisti. Proprio come una fan, una groupie di oggi. Assiste a Cavalleria e alla Locandiera: “Ho passato una notte di insonnia a ricordare tutti i suoi gesti, i suoi atteggiamenti... Vorrei diventare la sua amica, la sua cameriera”. Scrive quindi che a Genova, alloggiando la Duse nell’appartamento d’albergo accanto al suo, ha trovato il coraggio di intonare a voce piena il lamento di Monteverdi (lei, come D’Annunzio, scrive Monteverde) “Lasciatemi morire”; la Duse applaude attraverso il muro e le fa avere un mazzo di fiori, ma poi parte per la Russia.

Il 20 febbraio 1887 – è documentato in una lettera – l’idolo di Emma Calvè e lo stroncatore di Gemma Bellincioni diventano amanti…

Fine prima parte

Cento anni dalla morte di Eleonora Duse - parte II


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