L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La poetica del fenomeno

di Roberta Pedrotti

A meno di un mese dalla scomparsa, un ricordo di Ewa Podles, incarnazione di un'idea di vocalità belcantista trascendentale e capace, pertanto, di esprimer pathos e ironia, tragedia e commedia anche al di là dell'alveo barocco e rossiniano.

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È stato come un fulmine a ciel sereno, inaspettato, sconcertante, tanto che dopo l'iniziale stordimento la notizia resta lì, un'assenza che sembra sospesa in una sorta di limbo e costringe a fare i conti con un mito coccolato dai più devoti amanti del belcanto nel suo aleggiare, fantasma atipico, attorno all'Olimpo delle voci. Ewa Podles, nata a Varsavia il 26 aprile del 1952, è morta senza arrivare a settantadue anni, la salute non era più delle migliori, pur senza lasciar immaginare il peggio; il marito, il pianista Jerzy Marchwinski (6 gennaio 1935-7 novembre 2023) l'aveva preceduta di soli tre mesi.

Scorrendo il suo repertorio e l'elenco dei teatri in cui si è esibita, dei musicisti con cui ha collaborato, sembra che non le sia mancato nulla. Rossini ed Handel, soprattutto, ma anche Verdi, Wagner e Čajkovskij (una volta tanto una Contessa della Pikovaya Dama che fosse un vero, carismatico contralto e non un soprano a fine carriera). La Scala, Pesaro, Venezia, Napoli, Parigi, New York, Berlino, Mosca, Madrid, Barcellona... eppure la sua carriera non è stata una cavalcata trionfale. Anzi: a Milano il Piermarini l'ha vista, sì, ma poco, fra il 1991 e il 1992 come Ragonde nel Comte Ory, poi nell'Enfant et les sortilèges di Ravel e protagonista (in seconda compagnia) di Tancredi.  Infine, nel 1996, nella parte più caratterista che virtuosa della Marquise de Berkenfield nella Fille du régiment al fianco di Mariella Devia, con la quale aveva condiviso il palcoscenico della Fenice in una storica Semiramide. Al Rossini Opera Festival, addirittura, una specialista come lei arriva solo alle soglie dei cinquant'anni in quel gioiello sui generis che fu Le nozze di Teti e di Peleo nel 2001, estate in cui tiene anche un recital accompagnato al pianoforte. Seguiranno due concerti con orchestra e una sola produzione operistica, Ciro in Babilonia nel 2012 e nel 2016.

Verrebbe quasi la tentazione di parlare di un'artista sottovalutata, sebbene non solo i trionfi, ma anche la valorizzazione che ebbe in produzioni cucite su misura per lei proclamino il contrario. Il punto è, forse, proprio nell'essere stata Ewa Podles un fenomeno tale da inserirsi a fatica nelle logiche di una grande carriera ordinaria: anche per chi ne riconosceva la grandezza era difficile collocarne l'unicità in uno star system. È facile allora capire come potesse risultare eccentrica la sua personalità se si pensa che, lambendo solo un paio di volte la fase finale della carriera di Marilyn Horne, proprio a Pesaro il riferimento per il contralto rossiniano en travesti è rappresentato prima da Lucia Valentini Terrani, poi, in chiara continuità, da Daniela Barcellona, grandi artiste per molti versi agli antipodi, con la loro propensione a un canto più rotondo e vellutato, rispetto allo spericolato e granitico bronzo di Podles. Sono due strade diverse, possono essere egualmente valide e nella loro divergenza si riconosce l'isolamento del fenomeno del contralto polacco. Da un lato l'idea di classicismo e protoromanticismo si esprime con un fraseggio più levigato e morbido, dall'altra invece spicca della stesse temperie poetica la grandiosità, all'umano risponde il sovrumano dei contrasti estremi nell'estensione e nel colore. Il Ciro di Ewa Podles è emblematico in tal senso, per quanto il confronto sia più eclatante in parti più frequentate, come Tancredi. Il Gran Re persiano, però, non è solo un eroe e un amante: è un sovrano nel pieno del potere e della maturità, è un padre e Podles coglie esattamente, con il suo titanico oricalco, la virilità imperiosa dell'eponimo. La brunitura talvolta perfino ruvida, opaca di un colore vocale che non cerca l'omogeneità nella sterminata estensione esalta la grandezza eroica, il sublime, tragico scarto dalla norma che eleva questi sovrani, principi, cavalieri e guerrieri.

Ewa Podles rappresenta un aspetto ben preciso e presente nell'estetica barocca e rossiniana, ma essendo questo il crisma dell'eccezionalità abnorme (ma non certo anarchica quanto a tecnica, gusto e stile, quand'anche audace e liberissima nella ricerca di variazioni e cadenze) non può che essere anche, per definizione, un unicum.

Peraltro, è parimenti chiaro a chi non si fermi a collezionare note estreme e invenzioni pirotecniche che il bronzo eroico non è che uno dei volti dell'arte di Ewa Podles, la cui monumentale, nobile estremizzazione vocale contempla – e non potrebbe essere altrimenti – anche la femminilità e i registri dell'ironia e della dolcezza suadente o malinconica. Il primo caso è esplicitato, più ancora che dalle Quickly, delle Berkenfield o dalle Isabelle, proprio dal debutto pesarese del 2001, dove lei e Rockwell Blake (tanto assimilabile nel discorso sull'eccezionalità isolata del canto) ricoprivano i ruoli divini di Giove e Giunone sfidandosi anche nei simillimi rondò “Non più mesta accanto al fuoco” e “Ah, il più lieto, il più felice” in risposta all'esposizione di Patrizia Ciofi / Cerere con “E d'Imene intorno all'ara”. Un gioco che i divi divini hanno reso irresistibile. Per quanto riguarda la capacità di Podles di legare, sfumare, raccogliersi in un'espressione intima e delicata, facciano testo anche pagine che esulano dall'alveo barocco, classico e belcantista: la Cieca della Gioconda di Ponchielli o, ancor più, Mahler, Šostakovič e Prokof'ev. Di quest'ultimo, il Campo della morte da Alexander Nevskij intonato a Pesaro nel suo ultimo concerto resta fra i ricordi più toccanti per i fortunati presenti. A conferma che il mito belcantista di una vocalità estrema, sovrumana può trascendere i confini del repertorio e fars più che mai umana, incarnare rossinianamente "il cantar che nell'anima si sente".


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