L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Serate romane

di Luca Fialdini

Il cartellone dell’Orchestra Sinfonica di Milano propone un insolito, ma vincente, binomio Italia-Norvegia e con l’attesa première di Maggese di Filippo Del Corno

MILANO 12 aprile 2024 – Norvegia e Italia, insieme, per raccontare in tre titoli più di centocinquant’anni di musica; si continua a porre il focus sulla musica del Novecento (storico o recente) e contemporanea, in questo caso proposta assieme a al grande repertorio più risalente. Un trittico insolito che – come premesso – pone l’inizio di questo viaggio lontano per distanza geografica e temporale, precisamente in Norvegia e Danimarca tra il 1868 e il 1869 con Edvard Grieg e il suo Concerto per pianoforte e orchestra in la minore, uno degli attacchi più celebri del romanticismo musicale.

È un lavoro davvero strano quest’unico concerto di Grieg (quello in si minore, ancora per pianoforte, esiste solo in forma di abbozzi), dove la penna è completamente sovrastata dagli autori incontrati nel corso degli studi al Conservatorio di Lipisa: nella scrittura pianistica è fin troppo evidente l’influsso di Chopin e Liszt, sporadicamente emerge qualche tratto di Mendelssohn – soprattutto nelle combinazioni di legni e ottoni – e su ogni cosa si allungano le ombre di Robert Schumann e del suo Concerto per pianoforte in la minore. Grieg ricalca quasi ossessivamente molti dei tratti di quello che in modo inequivocabile costituisce l’antecedente e il modello del suo concerto, condividendo con questo la tonalità d’impianto, l’ingresso del solista con il drammatico gesto discendente seguito da un intervento tematico dei legni con i corni (del medesimo colore, peraltro), l’architettura generale in due movimenti, considerando che quelli che usualmente si indicano come secondo e terzo devono essere eseguiti come un unicum; insomma, fosse stato scritto al giorno d’oggi, probabilmente Grieg avrebbe avuto qualche grattacapo con la SIAE. È un’opera scritta a ventiquattro anni, quindi in un momento in cui la mano non era ancora pienamente consapevole di sé stessa e soprattutto non sapeva resistere alla seduzione del seguire le orme dei propri predecessori; l’interessante è la capacità del compositore di esprimere la propria individualità in dettagli tutt’altro che secondari come l’insistere sulla sequenza seconda minore-terza maggiore, tipico del folklore musicale norvegese, inoltre la terra natale viene evocata nel terzo movimento dal richiamo all’ halling, una danza veloce in 2/4 o 6/8, e il riferimento popolare è sottolineato dall’ossessivo andamento del basso che inizia pure con I-V-I-V. Ma più di questo si rileva il gusto per una certa nitidezza nell’orchestrazione, una caratteristica che verrà approfondita nel percorso del compositore e diventerà una delle caratteristiche del suo stile; di più, potendo contare sulla chiarezza del tessuto orchestrale, Grieg è in grado di evocare quasi all’istante un preciso contesto emotivo. Nei trenta minuti dell’esecuzione emerge più volte un senso di déjà vu (per non dire “alla maniera di”), ma è chiaro che, come si suol dire, che il ragazzo ha talento.

La bella direzione di Sesto Quatrini si focalizza sul carattere appassionato e malinconico del Concerto in la minore, evidenziando i profili lirici della grande architettura e alcuni intagli dell’orchestrazione. In generale si ammira la bella cura nell’interpretare la frase, i respiri non scritti ma in accordo con fraseggio e tensioni armoniche, la gestione della trama degli archi (in particolare nelle trasparenze del secondo movimento). Gesto lineare, molto comprensibile dalla platea, da cui risulta una riuscita comunicazione con l’orchestra. Dal canto suo, la Sinfonica di Milano si dimostra ancora una volta perfettamente in asse parlando di interpretazione del repertorio ottocentesco: lo scavo nella timbrica, in particolare dei legni, riesce a trasportare nell’auditorium della Fondazione Cariplo quella caratteristica luce norrena, morbida, nostalgica, in cui affiorano persino toni di grigio ma mai di cupezza, al contrario della musica boema. Ottimo anche il bilanciamento tra solista e orchestra, non solo nei passi concertanti; non si è mai avvertito lo scalino fa il solo e il tutti, piuttosto episodi di emersione e immersione della tastiera rispetto alla massa orchestrale, come prevede la più pura prassi compositiva romantica.

Tuttavia l’elemento più straordinario del primo punto del programma è proprio il solista. Nobuyuki Tsujii si trova nel proprio elemento, dovendo proporre un Concerto che prevede una parete di denso virtuosismo e al contempo richiede un investimento importante in termini di espressione. La prima cosa che colpisce di Tsujii è il controllo impeccabile di articolazione, pulizia e tocco; quest’ultimo in particolare è davvero strepitoso e unito alla perizia tecnica e alla raffinata musicalità porta Tsujii a rendersi protagonista di un’esecuzione più che maiuscola. Più che condivisibile l’accoglienza entusiastica riservata dal pubblico al pianista giapponese, il quale ha ricevuto tante chiamate alla ribalta da concedere ben tre bis: Matrimonio a Troldhaugen, n. 6 dai Pezzi lirici Op. 65 di Grieg, il pirotecnico Studio da concerto Op. 40 n. 1 di Kapustin e ancora dai Pezzi lirici (ma Op. 12) la celebre Arietta.

Molto attesa la prima esecuzione assoluta di Maggese, brano sinfonico di Filippo Del Corno commissionato dall’Orchestra Sinfonica di Milano e dalla Fondazione Arturo Toscanini di Parma. Per ammissione dello stesso compositore, si tratta di una struttura a pannelli presentati all’ascoltatore semplicemente giustapposti e in effetti le quattro grandi macrosezioni posseggono evidenti caratteristiche individuali, ma andando appena oltre la superficie si possono individuare gesti ricorrenti che garantiscono la coesione del pezzo nonostante la varietà dei pannelli, ad esempio le relazioni tra quintine, settimine e sestine. A sottolineare ulteriormente l’unitarietà di Maggese c’è anche l’orchestrazione, apparentemente lineare ma che in realtà è gestita su più piani tenendo anche conto della spazializzazione del suono, giocata ora su raddoppi non scontati, ora su piccole campiture che creano legami trasversali inattesi: un temolo sul ponticello dei violini diventa un frullato dell’ottavino, quindi si trasforma in un rullo del timpano, poi dei temple blocks, mentre altri strumenti tessono una trama di rimandi di terzine di crome. Del Corno crea la complessità nella visione verticale dell’orchestra, realizzando in unica soluzione una partitura che tiene grande conto del dato percettivo e quindi appetibile anche per un pubblico che non frequenta spesso la contemporanea (ammesso che questa catalogazione abbia un senso).

La conclusione – davvero succulenta – è affidata ai Pini di Roma, quella che oggi è probabilmente la pagina più celebre e celebrata di Ottorino Respighi. C’è poco da dire: il piacere del suono orchestrale di Respighi offre una seduzione irresistibile; a partire dall’incipit dei Pini di Villa Borghese è impossibile non udire il taglio prettamente europeo del suo pensiero musicale, nella cui formazione hanno giocato un ruolo determinante i corsi di Rismkij-Korsakov (che notoriamente fu anche il maestro di Stravinskij, infatti molti hanno paragonato questo movimento alla Fiera del Petruška) e la frequentazione dell’entourage di Richard Strauss. La cosa singolare e su cui non si presta mai abbastanza attenzione è il fatto che, nonostante l’etichetta di poema sinfonico, la precisione dei titoli e il puntiglioso programma premesso alla partitura, il risultato sonoro abbia davvero poco a che fare con le suggestioni extramusicali. Villa Borghese, la catacomba, il Gianicolo e l’Appia sono solo degli scenari che Respighi sfrutta come pretesto per delle situazioni musicali, in poche parole è solo esercizio dell’immaginazione musicale, e di quanto questa possa evocare nell’ascoltatore, combinata con l’uso espressivo della forma.

Forse I Pini di Villa Borghese aveva bisogno di un paio di tacche di metronomo in più, ma non è importante visto che gli sforzi congiunti di direttore e orchestra hanno dato come risultato una splendida chiarezza. I quattro movimenti respighiani con i timbri sfavillanti, le sonorità monumentali e i biancori lunari trovano realizzazione eccellente e l’Orchestra Sinfonica di Milano in grande spolvero raggiunge vette assai elevate. Dei quattro, probabilmente il più riuscito è I Pini presso una catacomba, con la misteriosa salmodia sotterranea che avvolge qualunque cosa e lì l’intervento degli ottoni vale tutto, in particolare il trio di tromboni nella seconda metà. Molto bene le rarefazioni e i soli quasi cameristici de I Pini del Gianicolo, con quel famoso “solo” di usignolo che aveva destato tanto scalpore nelle prime esecuzioni, un’apparizione del grammofono che prefigura l’ormai stantio nastro magnetico tanto caro agli anni ’70.

Quatrini concede grandiosità quando richiesta dalla partitura, ma negli squilli delle buccine, nella salmodia accorata e nella marcia delle legioni non c’è nessuna polverosità né tantomeno l’epicità di cartapesta dei peplum: semplicemente si rende all’ascolto quello che il compositore richiede e a volte Respighi richiede magniloquenza, in quell’amore che è sì per la città eterna ma anche per la Roma a lui contemporanea e popolare (basti pensare alla Befana delle Feste romane).

Una serata all’insegna di quel livello a cui la Sinfonica ci sta abituando sempre più, premiata da lunghi applausi per l’orchestra e Quatrini.


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