L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dalle mascherine alle Maschere

di Giuseppe Guggino

All’approssimarsi dei giorni di carnevale il Teatro Goldoni di Livorno mette in scena Le maschere di Pietro Mascagni in un nuovo allestimento firmato da Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi. Di rilievo, con pochissimi distinguo, il cast radunato per l’occasione.

Livorno, 10 febbraio 2023 - Sembrano per fortuna ormai lontanissimi i tempi in cui, all’ingresso di teatri e sale da concerto, il pubblico era invitato ad indossare le odiosissime FFP2, ricevendole persino in omaggio in caso di dimenticanza. Analogamente, seppur in un’atmosfera più leggera e scherzosa, il pubblico che disattendeva l’invito del Teatro Goldoni di Livorno ad assistere in costume a Le maschere di Pietro Mascagni veniva prontamente rifornito all’ingresso in sala di mascherine carnascialesche; e la serata che così principiava, preannunciandosi gioviale, non deludeva per nulla le aspettative.

Nel portare in scena l’opera mascagnana che, seguendo Iris, occupa una posizione baricentrica nel catalogo del compositore livornese, il tandem formato da Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi gioca la carta della burla sin dall’inizio, allorquando gli altoparlanti rivolgono il consueto invito a spegnere i telefoni cellulari durante la recita di Cavalleria rusticana. E l’Orchestra del Goldoni attacca davvero il preludio di Cavalleria, con il sipario che si apre su uno scorcio siciliano, lasciando il pubblico piuttosto disorientato. Solamente durante la siciliana “le maschere” irrompono occupando il teatro e reclamando il proprio diritto a calcare le scene. E, a ben vedere, nel corso della serata queste Maschere il diritto al repêchage vanno via via guadagnandoselo, pur fra gli alti e bassi di una scrittura tanto eclettica quanto diseguale che ricalca quelle di un libretto non particolarmente ispirato – quand’anche non proprio goffo – firmato da Luigi Illica.

L’opera, che fece fiasco nel 1901 in tutte le sei prime svoltesi in contemporanea in altrettante città italiane, è ispirata dal clima culturale di rinnovato interesse per la musica preromantica di fine ottocento, epoca in cui anche i maggiori operisti italiani pre-verdiani resistevano in repertorio per non più di un paio di titoli. In questo senso l’intuizione mascagnana, almeno nelle intenzioni, è anticipatrice del Bourgeois gentilhomme di Richard Strauss, dello Stravinsky del Pulcinella o, ancora, dell’Arlecchino di Busoni, per tacere di certo Respighi arcaicizzante.

La trama dell’opera, nonostante il gran numero di personaggi, è piuttosto lineare e si impernia sul legame fra Florindo e Rosaura, contrastato dall’intento del padre di quest’ultima, Pantalone, di combinar le nozze della figlia col borioso Capitan Spaventa. Nel secondo atto Brighella, amico di Florindo, al fine di ostacolare il matrimonio combinato, mesce nel vino una polverina psicotropa che precipita la festa nuziale in uno sconquasso generale. Nel terzo atto Colombina, amorosa di Brighella, asseconda le attenzioni di Arlecchino, servo del Capitan Spavento, a cui si promette in cambio dell’intervento di quest’ultimo nel dissuadere dalle nozze il suo padrone, che è in realtà un impostore, peraltro già ammogliato. Arlecchino, consapevole della condizione di Capitan Spavento, lo smaschera documenti alla mano e quel punto a Pantalone non rimane che concedere Rosaura all’amato Florindo. Nella commedia però la cifra sentimentale della scrittura mascagnana prevale di gran lunga sul buffo che rimane relegato alla balbuzie di Tartaglia, servo di Pantalone, e nell’iperbolica caratterizzazione militaresca di Capitan Spavento. Anche gli spunti satirici del libretto sembrano rimanere non raccolti nell’intonazione musicale, anzi, Mascagni pare prendere proprio alla lettera Illica, quando celebra “Patria, Famiglia e Dio” in una commedia nella quale è sfiorata per un soffio la bigamia. In questi casi la scrittura corale si fa insopportabilmente omofonica, salvo indurre l’ascoltatore al rimpianto ad ogni timido e occasionale sconfinamento contrappuntistico; sicché la conclusione collettiva non può che essere affidata ad una sorta di pretesca salmodia – che attacca a cappella, rimanendo però distante anni luce dal finale del Falstaff – a far il paio con l’autarchica retorica del testo inneggiante alla “maschera italiana che, inspirata, hai dato a tutti i mondi l’arte eterna”. Eppure il Falstaff di Verdi (che peraltro viene a mancare pochi giorni dopo le premières, inducendo Mascagni a ridurre le poche repliche romane, per consentigli la partecipazione alle esequie) aleggia qua e là, specie nel secondo atto (si veda lo scilinguagnolo di Tartaglia), nell’insieme forse il meno diseguale dei tre.

Se il canto di conversazione fa sovente pensare a Bohème, pur fra una sovrabbondanza di spunti tematici d’impronta toccatistica, più che il settecento (appena lambito con una delicata Pavana), il gioco di scrittura retrospettiva pare omaggiare maggiormente Rossini (con la Furlana e col geometrico finale secondo) e Bellini (con le sonnambulesche strofe di Colombina nel duetto con Arlecchino) o, ancora, il genere dell’opéra comique con il ricorso a ricorrenti refrain motivici (“Non si firmerà, non si firmerà, no, no, no” oppure “La polverina”). Ciò nonostante la natura di Mascagni melodista della Giovane Scuola emerge prepotentemente nelle grandi frasi liriche – sovente raddoppiate dagli archi – affidate prevalentemente alla coppia di amorosi, che costituiscono i momenti di maggiore intensità.

Condicio sine qua non ci si possa cimentare nel recupero è credere convintamente nel valore artistico dell’opera che, fra i suoi sostenitori ha potuto annoverare Gianandrea Gavazzeni e Gianluigi Gelmetti. E l’entusiasmo non pare latitare presso alle masse artistiche del Teatro Goldoni di Livorno guidate da dal podio da Mario Menicagli, che ne è anche direttore amministrativo. Nella sinfonia di apertura, brano di ragguardevoli difficoltà tecniche – articolato fra due episodi di natura contrapposta, l’uno brillante per archi e legni, l’altro patetico, appannaggio prima dei celli e poi dell’oboe, fra i quali si insinua persino uno scoperto solo del corno – la volenterosa orchestra si misura con encomiabile precisione, sebbene il sostegno della bacchetta sembri perfettibile. La sensazione si rinnova nei finali d’atto che, essendo fra i punti di minimo artistico della partitura, necessiterebbero di maggior audacia interpretativa.

Elemento di forza della produzione si rivela indubbiamente il cast, accuratamente assemblato, come è d’uopo che sia per un lavoro di carattere collettivo. Catalizzatore della compagnia è il Tartaglia di Massimo Cavalletti, in ottima forma, che agisce da scanzonato mattatore. Notevole la Rosaura di Silvia Pantani che si fa valere sin dalla lettura della lettera di Florindo che sfocia nel primo appassionato arioso, affrontato con un’intensità interpretativa che si mantiene immutata per tutta la serata. Maturo tanto scenicamente quanto vocalmente è Min Kim che di Capitan Spavento possiede la sfrontatezza e la cui baldanza, a differenza di quella del suo personaggio, pare ben sostanziata e non farlocca, tanto da augurarsi di poterlo presto riascoltare in altre occasioni. In costante crescita è invece il Florindo di Matteo Falcier che, se affronta il duetto strappalacrime di inizio secondo atto con qualche prudenza, traguarda la serenata del terzo con buona dose di generosità. Didier Pieri ha mezzi e intelligenza per un’accurata realizzazione di Arlecchino, tratteggiato a tinte pastello, tanto nella forbitezza dell’emissione quanto nell’intelligibilità del testo intonato, a cui fa da contraltare la simpatica Colombina di Rachele Barchi, ancorché ancora un poco acerba.

Molto puntuale è Marco Miglietta alle prese con Brighella, così come non difetta per impegno il Dottor Graziano di Giacomo Medici, mentre Vladimir Alexandrovich è l’unico elemento censurabile della distribuzione, Pantalone quanto mai caricaturale, conseguenza di un’organizzazione vocale malferma e caratterizzata da tutti i vezzi tipici dei bassi d’area slava.

La parte visiva, dopo la riscrittura del prologo, ancorché già metateatrale nel libretto di Illica, si muove con garbo, dislocando l’azione fra palcoscenico, platea e palchi di proscenio, anche se capitalizza relativamente poco le possibilità di un impianto scenico caratterizzato dal palcoscenico nudo con un unico elemento centrale – costruito in sinergia con la Fondazione Carnevale di Viareggio – che ruotando a fine dell’opera si disvela essere la testa di un clown.

Il pubblico plaude convintamente, e alla fine ci si domanda se queste Maschere non meritassero qualche recita in più delle due in programma. Propendendo per una risposta convintamente affermativa, gli auguriamo di poter occupare in futuro altri palcoscenici oltre a quello livornese.

 

 

 
 
 

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