L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

È trionfo, non è pena

di Antonino Trotta

Pur con una regia, quella di Italo Nunziata, che rasenta la forma di concerto, Beatrice di Tenda andata in scena al Teatro Carlo Felice di Genova si guadagna calorosissimi consensi grazie al poker vocale schierato per ridar vita al penultimo lavoro teatrale di Vincenzo Bellini: sugli scudi Angela Meade, Carmela Remigio, Mattia Olivieri e Francesco Demuro, ottimo il lavoro in buca di Riccardo Minasi.

Genova, 17 marzo 2024 – Stretta tra Puritani e Norma, le due colonne d’Ercole dell’intera produzione belliniana, la Beatrice di Tenda è stata segnata, in fase di gestazione e anche di debutto – pur con la leggendaria Giuditta Pasta quale creatrice del ruolo – una sorte non particolarmente lieta tant’è che ancora oggi, e nonostante le premurose attenzioni di ugole celeberrime, l’opera fatica a liberarsi dell’etichetta di rara. Le pagine raffinatissime che ne sublimano l’architettura musicale, di fatto, non sempre son sufficienti a colmare i vuoti lasciati da una drammaturgia a tratti zoppicante imbastista dal maldestro libretto di Felice Romani, chiaramente ispirato a una canzone di Annalisa: c’è lui che ama lei che ama lui che ama lei che, forse, ama solo il suo popolo, e basta. Metterla in scena, dunque, è vero grattacapo e come spesso capita quando s’affronta un’opera musicalmente stupenda e teatralmente fiacca, puntare tutto sulla straordinarietà del parterre vocale può dimostrarsi una scelta saggia seppur pavida.

Così s’è fatto al Carlo Felice di Genova, dove Beatrice di Tenda è andata in scena con una nuova produzione che s’è guadagnata calorosissimi consensi da parte pubblico e raccolto i melomani più incalliti provenienti da tutta la penisola. Sulla regia firmata da Italo Nunziata, con scene di Emanuele Sinisi e costumi di Alessio Rosati, c’è davvero poco da dire: prossima a un’esecuzione in forma di concerto, senza nemmeno il conforto di rincuoranti carezze allo sguardo, la lettura ammicca a un tempo e un luogo poco definito, se non confuso, che nell’apparente tentativo di svecchiare la trama scardina quei pochi riferimenti e lascia lo spettacolo libero di inabissarsi nella noia più totale. Peccato, anche perché in buca Riccardo Minasi dirige i complessi genovesi con idee, controllo di palcoscenico e pathos: ne consegue una concertazione accattivamene per accento e colori, in cui involo lirico e impennata drammatica si alternano – al netto di qualche corona forse troppo enfatizzata – con consapevolezza teatrale che avrebbe meritato maggior eco in scena.

Quanto ai cantanti, per questa produzione s’è scelto un quartetto d’assi che da solo basta a scrivere le sorti della serata. Il ruolo del titolo è affidato al super soprano americano Angela Meade, ormai beniamina del Carlo Felice, qui chiamata al cimento con una parte insidiosissima per la classe e la perizia vocale che la scrittura imporrebbe. Messi a tacere allora i ricordi – anche discografici – di Devia e Sutherland, ci si lascia facilmente conquistare dalla statura drammatica di questa carismatica Beatrice: con una colonna marmorea di suono che si spande in lungo e in largo, in alto e in basso senza frattura alcuna, Angela Meade infonde alla sua eroina quell’animus pugnandi che da sempre è sua cifra distintiva. Le si ammira così quel fraseggio assai istintivo in cui si alternano filati eterei e folgori scagliate con indomita baldanza, quella linea di canto avvolgente e flessuosa a cui l’esemplare tenuta di fiato accorda arcate lunghissime e tornite – l’ingresso di Beatrice, pur con qualche provvidenziale astuzia del mestiere, ne è fulgido esempio –, quella perentoria autorevolezza con cui le agilità di forza sono saettate al di là di coro e orchestra – nella stretta del quintetto, per citare qualche passaggio –. Al suo fianco, in un ruolo di non minore bellezza ma di minore estensione, ritroviamo una Carmela Remigio che svetta per l’aristocratica eleganza infusa alla sua Agnese del Maino. Attrice e cantante sopraffina, la Remigio rivaleggia alla pari con la Meade per grinta e vigoria nel canto. Variazioni, puntature e smorzature sono distribuite con contezza di stile e dominio di mezzi, in un’interpretazione dove la sensibilità dell’interprete e l’intelligenza della musicista si mescolano a dovere per dar luogo a cocktail artistico sempre dolce e inebriante. Anche gli uomini fanno spellare le mani: Mattia Olivieri, annunciato indisposto, confuta presto le premesse dando voce ampia e morbida al cattivissimo Filippo. Gagliardo nell’emissione, accuratissimo nel porgere, in cui si ravvisa un encomiabile scavo della parola, Olivieri risolve il magnifico ruolo facendo risplendere tutte le qualità del proprio strumento e senza rinunciare mai ai crismi del canto belliniano, come testimoniato nell’aria del secondo atto. Francesco Demuro, Orombello, si fa spazio sul palco a suon di sovracuti al fulmicotone, infilati qui e là in chiusura di duetti e concertati. La parte è piccola, ma il tenore grande, e il solo duetto basta per apprezzare il prezioso smalto tenorile o la bontà della linea vocale. Fanno benissimo anche Manuel Pierattelli e Giuliano Petouchoff, rispettivamente Anichino e Rizzardo, mentre più disordinato del solito ci è parso il Coro del Teatro Carlo Felice di Genova, istruito dal maestro Claudio Marino Moretti.

Teatro non pienissimo e applausi calorosi per tutti, con inevitabili e meritate punte di delirio per la Meade.


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