L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mimì non è morta

di Stefano Ceccarelli

Alle volte, le eroine del melodramma − moriture per statuto drammatico − non muoiono: così è avvenuto nella suggestiva cornice delle Terme di Caracalla, sede del festival operistico estivo del Teatro dell’Opera di Roma. Ma, c’è da dire, queste deroghe drammaturgiche avvengono solo all’aperto: quest’estate dal tempo ballerino ha interrotto la rappresentazione all’inizio del IV atto (prima dell’arioso di Rodolfo «O Mimì tu più non torni»), impedendo a Mimì di morire. Un breve saluto del tenore è l’unica consolazione prima di un autentico diluvio. La disamina della recita del 27, dunque, non potrà tener conto di tutto il quarto quadro.

ROMA, 29 luglio 2014 – Chi non conosce La bohème? È forse l’opera più rappresentata al mondo. Fortunatamente, anche per i capolavori operistici vale il decalogo calviniano sui classici: potremmo parafrasare Calvino, infatti, dicendo che ogni ascolto-visione de La bohème è un po’ come ascoltarla-vederla per la prima volta, e pure che un’opera come La bohème non ha mai finito di dire quel che ha da dire. Questa edizione caracalliana – meno male! − ha certamente qualcosa da dirci. Nata sotto infausti auspici, ha subito l’annullamento della première per uno sciopero dovuto alle gargantuesche difficoltà economiche del Teatro dell’Opera di Roma (che hanno portato a giorni di tensione vera, in cui si paventava la liquidazione totale del teatro); inoltre, alla prima effettiva, l’abbandono della buca da parte degli orchestrali, sempre per il suddetto sciopero, ha avuto come conseguenza il fatto che l’opera venisse rappresentata col solo accompagnamento del pianoforte, fatto che ha causato la fuga dalla cavea di almeno un terzo del pubblico, bramoso di vedersi rimborsare il biglietto: dulcis in fundo, questa edizione del capolavoro pucciniano ha poi dovuto subire anche l’ira di Giove pluvio. Un vero peccato: lo spettacolo in sé presenta non pochi elementi positivi. Comincerei dalla direzione del giovane Daniele Rustioni, che ha all’attivo già diversi debutti blasonati (tra cui quello scaligero). Ha la mano delicata e non strafà di metronomo, elementi fondamentali per una resa adeguata della musica di Puccini, che adora avvolgersi su sé stessa, in più di un punto – senza che ne risulti, peraltro, svuotata di una reale esigenza drammaturgica. L’abilità direttoriale la si nota soprattutto nell’attenzione con cui Rustioni concerta le voci nei recitativi, non subissandole mai col volume dell’orchestra (che tiene, anzi − causa i microfoni − paradossalmente al di sotto del volume igienico in un teatro chiuso), di cui tenta di far emergere tutti i suoni possibili, presentando in qualche punto anche letture più personali di una partitura che certamente lo permette, armonicamente proteiforme, come poche, un vero e proprio arazzo finissimo. Dalla sua lettura, insomma, ben emerge l’attenzione per quell’armonia dei contrari (scomodiamo pure Eraclito di Efeso) che fu sempre una costante dell’orchestrazione del lucchese, oscillante fra la tradizione italiana (precipuamente verdiana), quella wagneriana, ma soprattutto il morbido linguaggio francese (Massenet, Bizet, Gounod): è noto infatti che «in Bohème abbondano le quinte aumentate, gli accordi di nona lasciati irrisolti, le triadi perfette usate con moti paralleli (come poi accadrà nei pianistici Préludes di Debussy) ed altro ancora tra cui un uso accorto delle settime secondarie e dei collegamenti enarmonici; ma nell’avvalersi con spregiudicata audacia d’una tonalità allargata, senza peraltro mai rinunciare ai tradizionali punti di attrazione posti a determinate tensioni e distensioni, Puccini si rivelò lungimirante precursore» (Attilio Piovano, dal programma di sala). Aquiles Machado è un buon Rodolfo; la sua voce calda, vibrante quanto basta, che ama sfogarsi tendenzialmente in alto, gli rende congeniale il ruolo: così ci fa gustare – eccetto qualche passaggio poco curato – il suo celeberrimo arioso «Che gelida manina». Nel duetto con Mimì nel III quadro si dà tutto, e l’emozione è tanta. Non altrettanto si può dire del Marcello di Julian Kim, che avrà anche un discreto mezzo vocale (per quanto non particolarmente brunito, tanto che per raggiungere certi effetti scurenti della voce in basso, è costretto a qualche ‘ingolamento’), ma è carente di un fraseggio italiano adeguato a una parte come quella di Marcello. La compagine femminile è più uniforme. Carmela Remigio, dotata di un’ottima tecnica e di un buon mezzo vocale, canta oggettivamente bene la parte di Mimì: ma la sua voce non ha un’allure propriamente pucciniana e si sente la mancanza di qualche dolce sfumatura, di taluni sensi inebrianti cui ci avevano abituato cantanti più addentro a questo repertorio (scomoderei la Freni, su tutte). Ciò non toglie che la Remigio ci regali una gradevole «Sì. Mi Chiamano Mimì» e un autenticamente commovente duetto nel III quadro, dove raggiunge assieme a Machado vette veramente notevoli, spaginando un’ampia gamma di commoventi sentimenti. Deliziosa la Musetta di Rosa Feola, che ci fa gustare appieno tutta la civetteria e la sensualità del ruolo, come nel canto «Quando me’n vo’ soletta per la via» sul salace valzerino. Vocalmente dotati lo Shaunard di Simone del Savio e il Colline di Gianluca Buratto. Dei comprimari, solo il Parpignol di Luca Battagello è degno di essere menzionato. Buono il coro, per quanto La bohème – si sa – è un’opera da camera; grazioso il coro di voci bianche.

La regia è quella di Davide Livermore, già collaudata (2012) al Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia. L’elemento di maggiore interesse è l’uso delle tecniche di proiezione e di animazione – ci si auspica penetrino sempre più a fondo nelle regie d’opera, anzi, più in generale, teatrali −, che cangiano continuamente dei pannelli bianchi disposti sfalsati a mo’ di fondale: tutta la scenografia è di fatto creata con continue citazioni di quadri impressionisti e post, «sintesi di tutta l’esperienza pittorica della Parigi fin de siècle, dove le pitture amplificheranno il racconto degli affetti in musica» (sono parole del regista, fra le note nel programma di sala). D’effetto è la proiezione di una Parigi notturna, citazione impressionista anch’essa (II quadro), con tanto di Tour Eiffel sparata su uno dei due pilastri, vestigia del calidarium. Qualche momento risulta, addirittura, indimenticabile: la proiezione di una delle versioni di Notte stellata di Van Gogh durante la scena del primo incontro di Rodolfo e Mimì («Ma per fortuna è una notte di luna, / e qui la luna l’abbiamo vicina.»); o quella di un paesaggio innevato – lo stile mi parve quello di Monet, ma non sono riuscito a individuare il quadro, dato che il francese ne dipinse molti con questo soggetto − che fa da sfondo al loro duetto d’amore del III quadro. Stanca un po’ l’ossessiva ripetitività di un quadro di Jean Béraud in cui una donna siede piangendo su un divano porporino (IV); da questo dipinto, Livermore ha tratto il costume di Mimì per l’ultimo quadro (ho potuto, alfine, vedere la fine dello spettacolo la sera del 2 agosto). I costumi sono di qualità deteriore rispetto alla versione valenciana, almeno a stare ai reperti fotografici: come che sia, rispettano l’epoca d’ambientazione originale. La regia presenta non poche falle: la scena delle candele, che permette l’incontro e il gioco di corteggiamento fra Rodolfo e Mimì, è trascurata, giacché è Mimì stessa che spegne il suo lume, senza essere sull’uscio (lo stesso dicasi del fatto che Rodolfo non raccoglie la chiave che Mimì si è persa…); l’entrata di Musetta su una pedana è debole, ma la scena si riprende con l’artificio della moviola durante il suo arioso. Molto carina è la regia del resto del II quadro, con molti saltimbanchi, acrobati e un mangiafuoco; un ruolo d’effetto lo gioca il coro dei bambini – l’espediente della bambina che avanza al proscenio e offre un lecca lecca al pubblico è spassoso. I personaggi vengono tutti abbastanza curati registicamente e i loro movimenti non sembrano frutto del loro arbitrio. Insomma, qualcosa poteva essere maggiormente curato; ma, complessivamente, il tutto ha un suo perché, una sua unità, elemento non scontato nella maggior parte delle regie teatrali. Peccato, insomma, lo spettacolo sia stato funestato dal maltempo e dalle problematiche politico-economiche del teatro. Parafrasando un bel passo di Gabriele D’Annunzio (Il Piacere) possiamo dire che certe opere ci perseguitano senza tregua e ci perseguiteranno per lunghissimo tempo, tanto sono intense. Tal è La bohème, che potremmo rivederla mille volte e piangere come se ne ascoltassimo la musica per la prima volta.

foto Luciano Romano


 

 

 
 
 

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