L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Jeu des cartes

di Luca Fialdini

James Feddeck e l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali propongono una promenade tra Beethoven e Šostakovič, insieme alla prima esecuzione di Poker Face di Roberta Vacca.

MILANO 13 aprile 2024 – Roberta Vacca ha l’onore (e onore) di precedere Dmitrij Šostakovič e Ludwig van Beethoven nell’odierno concerto de I Pomeriggi Musicali e lo fa con un divertente “gioco d’azzardo”: Poker Face per orchestra, commissione dei Pomeriggi stessi e presentata in prima esecuzione assoluta. È un lavoro che si pone con un atteggiamento molto ludico nei confronti del pubblico, a partire dall’ispirazione derivata dal secondo movimento del Concerto per orchestra di Bartók – Il gioco delle coppie – e quindi spostandosi su una lavorazione dell’orchestra per famiglie di strumenti, fino all’integrazione delle regole del poker all’interno del meccanismo compositivo, trasferendo in questo il valore di punti e figure; le carte da gioco e il denaro diventano addirittura parte integrante dell’esecuzione perché entrano a far parte del set delle percussioni (se vogliamo, una versione più raffinata dei found objects). Ma andando oltre questo, in puro odor di Saint-Saëns, dietro al gusto per il divertissement si nasconde una realtà più complessa: l’orchestrazione bilanciata, l’uso accattivante delle percussioni, la dichiarata accessibilità di ascolto senza rinunciare alle proprie convinzioni, la scrittura nitida, tutto è realizzato con eleganza. Una nota di pregio è costituita dall’idea di articolare il brano in pannelli non comunicanti l’uno con l’altro, ma l’intero discorso musicale è attraversato da gesti, motivi e persino piccoli temi che si rincorrono e ritornano, compressi o estesi, manipolati di continuo ma ben riconoscibili. Ottima la resa dell’orchestra, con un’attenzione per il timpanista-factotum Diego Guaglianone che ha gestito ottimamente una parte più che impegnativa.

Il concetto di unitarietà sviluppato attraverso pannelli – o movimenti – differenti compare anche nel punto successivo del programma, il Concerto per violoncello e orchestra n. 1 in Mib maggiore di Šostakovič. Sono molti i tratti inconsueti che l’enfant terrible di tutte le Russie racchiude in questa pagina, cominciando dall’impostazione quasi cameristica impressa al trattamento della strumentazione (si noti la presenza di un solo corno), ma soprattutto l’architettura generale che in quattro movimenti ne racchiude in realtà uno solo. Stilisticamente è un lavoro molto in linea con altri lavori dell’immediato periodo post-staliniano di Šostakovič, come il Secondo concerto per pianoforte, la Decima sinfonia e l’Ottavo quartetto; la direzione di James Feddeck restituisce i denti affilati di questa partitura che, come le altre menzionate, ha forti tratti autobiografici, dalla genesi dovuta alla collaborazione con il fu allievo di orchestrazione Mstislav Rostropovič, alla continua presenza del monogramma di Šostakovič D-S-C-H che in notazione tedesca diventa D-eS-C-H, re-mi bemolle-do-si. Il motto del violoncello che costituisce il tema portante dell’intero concerto è già una variante del monogramma e viene sottoposta a una serie di infinite, ingegnose variazioni.

La propulsione ritmica e lo slancio vitale, l’aggressività che tocca quasi il sarcasmo sono gli aspetti più evidenti dell’interpretazione di Ettore Pagano. Dritti al punto: l’esecuzione di Pagano è stata incredibile, una delle più coinvolgenti che chi scrive abbia sentito dal vivo. La tensione, il controllo impeccabile anche nel registro acuto che in questa sede viene impiegato estensivamente, il piglio aggressivo, la cura del fraseggio, tutto è ineccepibile. Rispettata anche l’integrazione dello strumento con l’orchestra, gestita molto bene da Feddeck che ha anche l’intelligenza di far emergere il corno come una sorta di alter ego del violoncello.

Il Moderato, la sezione più lunga ed emotivamente intensa del Concerto, è un capolavoro sotto ogni punto di vista e tra l’altro esclude a priori che Pagano funzioni solo con pagine di fuoco e sangue: il solista riesce a declinare il proprio strumento in tutte le sue potenzialità cantabili, una berceuse condotta verso l’astrazione totale. La vigorosa Cadenza è invece l’occasione per il violoncellista ventenne di porre ancor più in luce i caratteri di tecnica e virtuosismo; vale però la pena di sottolineare come, seppure questi siano evidentissimi, Pagano non ceda alla tentazione dell’esibizionismo ginnico e ogni sua scelta sia guidata da una bella intelligenza musicale. Incorniciato da scroscianti applausi, Pagano concede due bis infiammati, tra cui spigga Black Run di Svante Henryson con uno straordinario uso del pizzicato.

Come anticipato, la direzione di Feddeck propone un’aderenza pressoché totale al testo di Šostakovič, nulla si può esprimere se non sincera ammirazione per la chiarezza che riesce a ricavare dall’organismo orchestrale, il lavoro efficace sulle timbrature e l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali risponde più che positivamente all’approccio del suo direttore principale. Gustosi e graffianti gli impulsi ritmici in bilico tra il grottesco e l’atteggiamento militare, con un’accortezza figure esili e nervose che caratterizzano così tanto queste pagine.

Direttore e orchestra sono protagonisti indiscussi della Quarta di Beethoven, sinfonia che non si può dire poco frequentata ma senz’altro leggermente meno frequente di altre. Ha sempre destato una certa sorpresa il carattere sereno che in Beethoven non si incontra spesso, persino con un certo humour nel finale, soprattutto se si considera che questa si trova incastonata tra due massicci monumenti sonori come la Terza e la Quinta; lo stesso Schumann la definì felicemente «una slanciata ragazza greca fra due giganti nordici». La chiarezza nel pensiero e nella gestione nell’orchestra che Feddeck ha mostrato in Šostakovič torna anche in questo caso ed è più che appropriato perché conferisce una lieta levità alla seconda nata del periodo eroico, una gioia spigliata nell’Allegro vivace che si trasforma in tenerezza nel lungo Adagio, mantenendo comunque un certo gusto per una monumentalità che in questo caso appare senza grandeur.

Bella compattezza dell’Orchestra dei Pomeriggi, in particolare degli archi, che fa apprezzare anche le linee spezzate tra i vari strumenti - un esempio su tutti lo Scherzo – e i guizzi dell’orchestrazione; non ultimo, un plauso a Lorenzo Lumachi per uno dei soli di fagotto più arditi ascoltati in recenti anni.

 


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