L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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La voce significante: il privilegio dell’uomo

Col termine mousikē gli antichi greci designano una modalità organizzativa ritmico-fonetica tipica sia del linguaggio sia della musica. Nel Cinquecento, lo storico umanista Benedetto Varchi, comparando greco, latino e italiano, constata che l’armonia non è propria solo della musica, ma anche del linguaggio, caratterizzato dall’innalzamento e dall’abbassamento degli accenti. Ritmo, inflessione melodica e dinamiche espressive, in effetti, accomunano il parlato e la musica, il linguaggio e il canto. Cicerone, ispirato dalla prosa greca, strutturava ritmicamente le sue orazioni, alternando differenti periodi (combinando metrica e armonia delle parti), e soleva accompagnarle col suono di tamburi per dare maggiore vigore alle parole; la musica potenzia la verbalità e, in quest’ottica, il canto, che non è altro che un parlare intonato, rende musicale e ancor più piacevole all’orecchio un discorso, oppure svela il messaggio che la voce pura reca dentro di sé.

Nel Seicento, il celebre filosofo, teologo e matematico francese Marin Mersenne conferisce alla voce grande valore in quanto è, a suo avviso, volto dell’anima. I tratti di un viso colpiscono gli occhi, la voce, grazie alle sue qualità acustiche, reca con sé immagini sonore dell’interiorità degli individui. Il ruolo dell’immaginazione, già individuato da Sant’Agostino (e da Aristotele prima di lui; lo Stagirita, nel trattato De anima, nel IV secolo a.C. circa, paragona il corpo umano a un vaso teatrale, asserendo che la voce umana risuoni nella cavità uditiva, satura di un’aria assai più fine di quella esterna ad essa, che la forgia attraverso gli organi preposti alla fonazione e grazie alle immagini che la vocalizzazione comunica a chi ascolta), è indubbiamente importante in ambito vocale, tuttavia immaginare non significa necessariamente organizzare e produrre un discorso e la voce non è sinonimo di articolazione; il linguaggio coincide piuttosto con un particolare modo di porgere la voce stessa che ci differenzia dagli animali.

Nel proemio alle Istituzioni armoniche, pubblicate a Venezia nel 1558, Gioseffo Zarlino (Chioggia, 31 gennaio 1517 – Venezia, 4 febbraio 1590), compositore e teorico musicale, afferma che la voce articolata, cioè il linguaggio, è il più grande dono di Dio all’uomo, in quanto, come riteneva anche Aristotele, è ciò che, appunto, ci differenzia dalle bestie. Anche Maffei, nei Discorsi filosofici, identifica la voce in generale, il suono puro e non solo il linguaggio, come un prezioso dono divino: in particolare, si sofferma sulla voce del medico, che ottiene la sua autorevolezza proprio da Dio; per questo motivo la voce di un vero medico è addirittura curativa, egli diviene quasi un eletto fra gli uomini e la pratica medica non è più solo un mestiere. In epoca rinascimentale, quando visse e operò Zarlino, la voce si configura come un potente mezzo comunicativo: sulla base di precetti ereditati dalla tradizione greca classica, le voci non veicolano solo concetti, ma soprattutto emozioni, che penetrano nell’animo umano, incontenibili e inarrestabili, toccando le più intime corde dei nostri cuori ancor prima di raggiungere le nostre menti, cioè il nostro lato, per così dire, più razionale e cogitativo.


 

 

 
 
 

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