L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il fascino dei contrasti

 di Stefano Ceccarelli

Il debutto romano del giovane talento Tarmo Peltokoski è all’insegna di un concerto in Ringkomposition, che vede due capolavori di Modest Musorgskij (Una notte su Monte Calvo e Quadri di un’esposizione) incorniciare la Rapsodia in blu di George Gershwin, eseguita al pianoforte da Alexandre Tharaud.

ROMA, 24 aprile 2024 – Un concerto singolare è quello che segna il debutto del giovanissimo Tarmo Peltokoski alla guida della massima orchestra italiana. Peltokoski, che non ha ancora raggiunto il quarto di secolo, ha conosciuto il suo floruit artistico nel 2022, quando è stato riconosciuto (meritatamente, direi) come un talento a livello internazionale. Un programma singolare, quello diretto da Peltokoski, perché avvicina Modest Musorgskij e George Gershwin, due compositori apparentemente agli antipodi. Problematico, incompreso, ipersensibile il primo; famoso, bon vivant, affascinante il secondo; la Russia zarista, con le sue grandezze e le sue arcane tradizioni opposta all’America rampante, alla New York brillante di inizio Novecento. Si può dare qualcosa di più lontano? Benché, certo, non serva una logica per articolare un qualunque concerto di musica straordinaria qual è quella presentata stasera, è interessante chiedersi se, forse, il fil rouge della serata non stia proprio nell’elemento popolare, oserei dire folkloristico, che pervade le opere dei due compositori, così apparentemente distanti fra loro.

Il concerto si apre con l’ultima versione di Musorgskij di Una notte sul Monte Calvo, vale a dire Il sogno di Gričko da La fiera di Soročinski. Peltokoski dimostra, sicuramente, di avere polso e personalità, improntando un’agogica ben scandita, inesorabile nel suo procedere, per acuire l’aria satanica che il pezzo possiede. La versione qui presentata si avvale del coro dell’Accademia, che, al solito, brilla nei versi demoniaci, come pure del coro di voci bianche, che simula assai bene lo scricchiolio della Totentanz degli scheletri. Peltokoski crea un ritmo quasi ipnotico, sottolineando come, in fin dei conti, Una notte sul Monte Calvo sia un po’ una parodia infernale della ieratica monotonia dei canti liturgici ortodossi. È chiaro che, in questa versione, molti dei colori accattivanti della ben più nota revisione orchestrale di Rimskij-Korsakov, l’autore della fama postuma della musica di Musorgskij, si perdano un po’. Se Rimskij-Korsakov ha donato alla musica occidentale un Monte Calvo più brillante e ‘digeribile’ al pubblico colto, al contempo ne ha adulterato, almeno in parte, la più genuina natura sonora. Peltokoski sacrifica, dunque, la brillantezza di alcuni passaggi per una lettura ieratica nel senso parodico del termine, curando molto l’interazione fra cori e orchestra. La parte di Černobog/Gričko è interpretata dal georgiano Giorgi Manoshvili, dalla voce cavernosa ma duttile, il che gli consente un fraseggio uniforme ed una tenuta eccellente. Il primo tempo prosegue trascinando gli spettatori da un sabba verso le sonorità jazz e blues dei primi del Novecento, in una sincretica, creola New York. Per la gershwinniana Rapsodia in blu entra in scena Alexandre Tharaud, ospite regolare dei cartelloni dell’Accademia. È Alessandro Carbonare ad intonare il celeberrimo glissando che apre la Rapsodia, con perizia, ma pure naturalezza, sporcando quanto basta l’immortale melodia. Peltokoski dirige morbidamente, facendo brillare il suono orchestrale: il passaggio da Musorgskij a Gershwin non può essere più palpabile, mostrando sicuramente la versatilità dell’interprete. Tharaud legge l’intera parte con grande perizia, pulizia sonora, musicalità; soprattutto nelle cadenze che costellano il brano, improntate a stili e tecniche differenti (tutte basate sul modulo ritmico del rag-time), impastate di malinconiche sonorità blues, Tharaud mostra grande abilità tecnica. Ciò che mi pare essere un po’ mancata, però, è una certa dose di spontanea naturalezza: in un brano come Rapsodia in blu, paradossalmente, forse non tutto deve essere perfetto; anzi, l’imperfezione (l’imprevisto ritmico, lo swing) è ciò che dona personalità all’interprete e ad ogni lettura della Rapsodia. Insomma, un Gershwin, quello di Tharaud, perfetto tecnicamente, ma a cui manca, qua e là, un po’ di anima. (Si confrontino, giusto per avere un termine di paragone, le diverse incisioni che Leonard Bernstein ha donato della Rapsodia in blu, per avere un termine di paragone che incarni l’anima brillante e imprevedibile, così genuinamente americana, che si dovrebbe dare al pezzo). Gli applausi attestano il gradimento del pubblico e Tharaud regala due bis: The man I love del medesimo Gershwin e Padam Padam di Edith Piaf, per piano solo.

Il secondo tempo è occupato da una magistrale esecuzione dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Si torna alle sonorità d’apertura della serata, ma ‘ingentilite’ dalla sublime orchestrazione di Maurice Ravel. Affrontando quest’opera simbolo della musica russa romantica Talmo Peltokoski mostra appieno ciò di cui è capace: e non delude. Il direttore, infatti, dipinge ogni quadro rispettandone la propria essenza, esaltando la musica di Musorgskij grazie all’attenzione ai colori, ai timbri netti, espressionisti degli strumenti, ai ritmi cangianti. La mano è delicata, dolce, decisa o pesantissima, a seconda dell’occorrenza. L’attacco della Promenade I, con quel suo incedere epico, marziale, delle trombe, ricorda molto la sensibilità mostrata nel Monte Calvo; ma si notino le sfumature cromatiche che il finlandese è in grado di cavare, per esempio, dalla Promenade II, così intensamente malinconica, sommessa, eppur carica di tutto Musorgskij. Nei brani più duri, precursori dell’espressionismo, costruiti con campiture nette, a forte contrasto, Peltokoski adotta una mano decisa, pesante, splendidamente d’effetto. Molti direttori, infatti, hanno quasi paura a far emerge le sonorità, che sanno di catrame, di brani come Gnomus, Bydlo e La capanna di Baba Yaga. Se quest’ultima ha un attacco terrificante, proseguendo in un sabba che ricorda molto il Monte Calvo, la parte centrale si stempera in una sonorità più fiabesca; invece, Bydlo è pura pesantezza tradotta in musica – qui Peltokoski scatena l’orchestra, donandoci una delle esecuzioni più belle che mi sia stata data la ventura di ascoltare. Impareggiabile la graffiante dissonanza della tromba in sordina che gracchia con notevolissimo effetto sopra il lamento degli archi in Samuel Goldenberg e Schmuyle. Ma Peltokoski non è solo sensibile all’effetto espressionistico, ma anche alle sonorità più delicate. Struggente, infatti, è risultata l’esecuzione de Il vecchio castello, un’elegia su una melopea del sassofono, una nebbiosa ballata; vivaci, brillanti, tutte giocate su impercettibili giochi di variazione agogica, coniugata alla perfezione dell’esecuzione sonora, sono Tuileries, l’irresistibile Balletto dei pulcini nei loro gusci e Limoges. Magnifico l’effetto volumetrico delle vibrazioni orchestrali, del tremulo degli archi, dell’eco lontana degli strumenti in Catacombae (Cum mortuis in lingua morta), cui Peltokoski dona ancora quell’allure ieratica tipicamente russa che si vede aver ben compreso a livello sonoro. Ma il momento più sublime è, senza dubbio, l’esecuzione de La grande porta di Kiev, una delle visioni musicali più belle mai uscite dalla penna di un compositore. Peltokoski vi arriva dopo una verticalizzazione potente, che si interrompe impercettibilmente per attaccare con sacralità gli accordi immortali, sorretti da trombe squillanti, che evocano la maestosità delle mura di Kiev – come non commuoversi, peraltro, vista la situazione storica contingente. Peltokoski fa scorrere con raccolta ieraticità il canto ortodosso che evoca le dolcezze del paradiso, prima di scatenare l’orchestra in un finale potentissimo, indimenticabile. Il pubblico è in estasi.


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