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Cento yen e uno zio beone

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Fra i primissimi tagli che Puccini avrebbe apportato alla partitura ci sarebbe stato dunque già a Milano quello dell'allusione di Cio Cio San ai “cento yen” per il nakodo che il contratto nuziale sarebbe costato a Pinkerton. Un richiamo che nel libretto originale torna più volte, insieme con dettagli economici assai minuziosi. Mezzo secolo è trascorso dello scandalo della Traviata, storia di una mantenuta in cui troppo spesso si fa esplicito riferimento a beni da alienare, puntate al gioco, risparmi conservati e contati moneta per moneta. La volgarità del trattar di denaro sul palcoscenico non cessa di turbare, non solo il pubblico che in tragico e commuovente contesto non vorrebbe sentir parlare di siffatte questioni materiali, ma anche lo stesso autore, che evidentemente tende, nel suo processo creativo, a spostare l'attenzione dall'aspetto sociale a quello psicologico più intimo, essenziale, universale. Inizialmente l'incontro fra due diverse culture è il cardine della tragedia, mentre via via, liberandosi da dettagli caratteristici e concreti, assume sempre maggior evidenza la solitudine di Cio Cio San, la sua illusione ostinata che spietatamente si infrange. La sua alterità culturale rispetto a Pinkerton si fa sempre più funzionale a questo isolamento, più che fulcro stesso del dramma.

Tuttavia, sarebbe un errore considerare tutto quel che di giapponese e giapponeseria cadrà fra Milano e Parigi  come divagazioni e pennellate di colore. L'Oriente era prepotentemente di moda, la Cina e il Giappone solleticano le fantasie degli artisti e del pubblico come, un secolo prima, l'avevano fatto Turchia e dintorni; Puccini vi si dedica con cura minuziosa, non fa del facile esotismo, ma s'informa presso la moglie dell'ambasciatore nipponico, annota nomi, usi, melodie. Il Giappone che emerge non sarà autentico, ma avrà una propria verità, una sostanza non meramente decorativa nella tragedia. Perfino le macchiette dei parenti, e quell'imbarazzante zio Yakusidé vittima designata dei tagli più consistenti e poi inaspettatamente riabilitato al Carcano, offrono un quadro brulicante di vita che osserviamo grottesco come lo può vedere l'estraneo – e razzista – Pinkerton, ma anche come lo può vedere Cio Cio San, con un misto d'imbarazzo e di affetto, piccolo mondo quotidiano messo alla prova di fronte a un altero “conquistatore”. L'insistenza sui dettagli della cultura e della famiglia d'origine della protagonista enfatizzano la plateale rottura bilaterale: la maledizione scatenata dallo Zio Bonzo da una parte, la conversione al cristianesimo e l'adozione degli Stati Uniti come nuova patria dall'altra. Il fatto, poi, che in origine Cio Cio San continuasse a esprimersi citando proverbi, filastrocche, ninne nanne nipponiche (fors'anche di questo Giappone di fantasia) dichiara che la sua è solo un'illusione, che tutto ciò che l'avrebbe resa “americana” è solo una menzogna, che in lei, cresciuta troppo in fretta con quel matrimonio precoce, è ancora vivo il sentimento infantile e che il legame con il mondo che ha rinnegato e che l'ha rinnegata non è reciso del tutto. Appartiene a chi rifiuta e la rifiuta, non a chi si ostina ad attendere: questa è la sua tragedia, leggendo il libretto nella stesura milanese, e l'immagine macchiettistica del parentado rende tutto ciò ancor più feroce.

Anche quella che sembra una divagazione, nel duetto del finale primo, assume un importante valore psicologico. Certo, la scena così come la si esegue correntemente ha un suo equilibrio perfetto, ma non si può negare che l'improvviso cambiar argomento di Cio Cio San di fronte alle parole ardenti di Pinkerton non rifletta la realistica reazione di un'adolescente innamorata, ma anche imbarazzata di fronte alla sua prima notte d'amore:

Pinkerton
Stolta paura, l'amor non uccide
ma dà vita, e sorride
per gioie celestiali
[avvicinandosi a Butterfly e prendendole la faccia]
come ora fa nei tuoi lunghi occhi ovali.
[Butterfly, con subito movimento si ritrae dalla carezza ardente di Pinkerton]

Butterfly[con reticenza]
Pensavo: se qualcuno mi volesse...
[s'interrompe]

Pinkerton 
Perchè t'interrompi?

Butterfly[con semplicità, riprendendo]
...pensavo: se qualcuno mi volesse
forse lo sposerei per qualche tempo.
Fu allora che il nakodo
le vostre nozze ci propose.
Ma, vi dico in verità,
a tutta prima le propose invano.
Un uomo americano!
Un barbaro! una vespa!
Scusate, non sapevo...

Pinkerton[incoraggiandola a continuare]
Amor mio dolce! E poi?..
Racconta...

Butterfly
Adesso voi
siete per me l'occhio del firmamento.
E mi piaceste dal primo momento
che vi ho veduto.

[Butterfly ha un moto di spavento e fa atto di turarsi gli orecchi, come se ancora avesse ad udire le urla dei parenti: poi si rassicura e con fiducia si rivolge a Pinkerton]

Siete
alto, forte. Ridete
con modi si palesi!
E dite cose che mai non intesi.
Or son contenta,
or son contenta.

La diffidenza dichiarata nei confronti dell'americano ha una sua forza precisa: marca la distanza culturale fra i due, riflette specularmente ("un barbaro") il disprezzo di Pinkerton verso i giapponesi, evidenzia il timore (ben fondato) di fronte all'unione, ma anche proclama il fascino irresistibile della novità e della diversità rispetto a quel microcosmo di parenti e parassiti. C'è, però, un altro aspetto notevole: dopo aver parlato dei “cento yen” ora Cio Cio San racconta di aver preso spontaneamente e consapevolmente in considerazione un matrimonio “a tempo”. Insomma, ci fa capire che sapeva a cosa andava incontro, ma che la situazione, anche grazie al fascino dello yankee, le è sfuggita di mano e ha finito per credere sul serio di poter essere la “vera sposa americana”. Un'altra possibile sfumatura del dramma dell'illusione, ma che ci propone una Cio Cio San leggermente diversa dalla ragazzina innamorata e ingannata della versione corrente, in cui non si fa menzione di questi antefatti e l'essenzialità della narrazione ci rende una figura più pura e ferita che mai.


 

 

 
 
 

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