L’Ape musicale

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pagliacci a torino

PAGLIACCI

di Ruggero Leoncavallo

Quando compose Pagliacci(1892), Ruggero Leoncavallo agiva sull’onda d’urto provocata dalla Cavalleria rusticana di Mascagni, e ne rinnovò il caldo successo abbandonando definitivamente i soggetti pseudo-wagneriani in cui s’era impaniato fino ad allora. Leoncavallo scrisse da sé il libretto; così al Verismo italiano, dopo l’esordio “concreto” di Cavalleria, venne fornito con Pagliaccianche un autentico “manifesto” di pensiero, convogliato nel prologo a sipario chiuso in cui viene specificato e illustrato il valore realistico dell’azione che seguirà. Si tratta di «uno squarcio di vita» ispirato al vero, in cui sono coinvolti «uomini di carne e d’ossa»: in effetti, la vicenda è basata su un episodio avvenuto nel paesello in cui il compositore trascorse la fanciullezza. Ma il conflitto di simulazione e realtà supera i confini angusti del “fattaccio”: vi si infiltra la “poetica del brutto”, che dalla produzione di Victor Hugo era entrata nell’opera italiana attraverso la mediazione del Rigoletto; serpeggiano suggestioni della Carmendi Bizet (le trombette giocose e il coro femminile in apertura), fascinosi effetti di spazialità nella scena delle campane, occasionali stilemi wagneriani. Dopo l’intermezzo sinfonico, lo stile indietreggia a ricalcare minuetti e gavotte settecenteschi, fino a sovrapporsi in un intreccio grottesco ed enigmatico al rinnovato prepotere di una scrittura drammatica: primo frutto del recupero delle “maschere” nel teatro non solo operistico del Novecento.

PROLOGO

A Montalto, in Calabria, il giorno dell'Assunta. L’opera è doppiamente “teatro nel teatro”: la introduce infatti un prologo declamato da Tonio, uno degli attori della piccola compagnia che sta per rappresentare una commedia di mascherine.

ATTO I

Canio raccomanda alla gente del paese di non mancare allo spettacolo che avrà luogo alla sera; invitato a bere con i contadini, si allontana, un po’ alterato da una goffa galanteria del gobbo Tonio verso Nedda, sua moglie, di cui è gelosissimo. Nedda resta turbata, perché si è innamorata di Silvio, un giovanotto del paese: Canio l’ha raccolta bimba, ma lei è stanca della vita girovaga e sogna il grande amore. Ricompare Tonio e Nedda, infastidita dalle sue avance grossolane, lo scaccia con disprezzo; per vendicarsi, Tonio va a cercare Canio, ben sapendo che Silvio verrà da Nedda; e infatti i due amanti vengono sorpresi proprio mentre si accomiatano promettendosi eterno amore. Silvio però fugge via senza che Canio abbia potuto distinguerne i lineamenti: la lite furibonda fra Canio e Nedda viene interrotta a viva forza, perché bisogna cominciare lo spettacolo: «La gente paga, e rider vuole qua».

ATTO II

La gente si accalca nel teatrino: c’è anche Silvio, che quella sera stessa vuole fuggire con Nedda e cominciare con lei una nuova vita. Ha inizio la recita, in cui Nedda impersona Colombina, Canio il suo sposo Pagliaccio, Tonio lo scemo Taddeo; questi tenta di circuire Colombina ed è al corrente d’una sua tresca con Arlecchino (Peppe). Mentre Colombina e Arlecchino banchettano di gusto e progettano di fuggire insieme, arriva Canio-Pagliaccio e Arlecchino si defila. Canio però aggredisce Nedda con una foga che trascende lo spettacolo ed esige da lei il nome dell’amante; Nedda tenta di proseguire la recita, poi replica con fierezza, provocando la reazione rabbiosa di Canio, che la ferisce mortalmente. Silvio si slancia sul palco e Canio pugnala anche lui; poi si volge stravolto al pubblico: «La commedia è finita!».


 

 

 
 
 

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