Salome in Wonderland
Il capolavoro di Richard Strauss ha inaugurato l’LXXXVII Maggio Musicale Fiorentino: nella compagnia di canto s’impone Lidia Fridman, preparatissima protagonista giunta in extremis, mentre il discorso si fa contrastato intorno alla lettura teatrale di Emma Dante e a quella musicale di Alexander Soddy (direttore anche di un contiguo concerto straussiano che può valere da prova del nove).
FIRENZE, 26 e 27 aprile 2025 – Quando un testo d’opera è culturalmente capitale, in parole e musica, ed esecutivamente magnificato, lungo la storia, andrebbe affidato come un premio ai suoi interpreti, affinché essi sappiano reggerne l’insolito peso e il pubblico vi apprezzi confermato il capolavoro. Ciò vale anche per quei titoli di repertorio allestiti, nel mondo d’oggi, con frequenza da routine e tuttavia non nati per un contesto qualunque: da Don Carlos e Aida di Giuseppe Verdi al Trittico e a Turandot di Giacomo Puccini, per esempio, questo è il caso anche di Salome di Richard Strauss, che ha inaugurato l’LXXXVII Maggio Musicale Fiorentino con quattro recite, nella sala grande del relativo teatro, dal 13 al 27 aprile. Il festival è il più blasonato d’Italia e le cose sono state fatte in grande. Il premio del quale si diceva, tuttavia, cade largo anzitutto sul nuovo allestimento con regìa di Emma Dante. Da lei ci si aspetterebbe chissà quale nuova profondità di lettura psicanalitica sulla perversa principessa giudaica apparecchiata da Oscar Wilde: dopo anni d’illazioni patriarcali da parte di registi colpevoli di essere maschi, ecco la grande occasione di rimettere ordine in fatto di femminilità autentica. Ma la Dante sembra non curarsi di quali somme esegesi l’abbiano preceduta, anche soltanto negli ultimi lustri: quelle, per esempio, di Robert Carsen a Torino e Firenze stessa nel 2008-10, di Romeo Castellucci a Salisburgo nel 2018 e di Damiano Michieletto a Milano nel 2021-23. Anziché schiudersi nuovi orizzonti, ella si limita ad adeguare Salome al proprio stereotipico formulario, meno analiticamente concettuale che confortevolmente visivo, sempre più fisso, pigro e trito, dunque anche prevedibile e pretestuoso, dalle guardie che divengono pupi di ceramica e inevitabili violentatori seriali, fino alla cisterna che diviene un mostro di pietra del Sacro Bosco di Bomarzo. Tutto si può fare in scena, ma in fondo dev’esservi una spiegazione che renda onore a chi appone la firma famosa. Qui l’azione – declassata da mito fondativo a fiaba inquietante – si svolge invece in un onirico non-luogo, insensibile agli esotismi musicali e occhieggiante alle immagini delle Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll: un tenebroso e sieposo giardino, nelle scene di Carmine Maringola, il quale potrebbe ospitare poco più in là una partita a croquet; due capolavori di abiti-scultura purpurei, nei costumi di Vanessa Sannino, evocanti in Herodes e Herodias il Re e la Regina di cuori; una “Danza dei sette veli”, nella coreografia di Silvia Giuffrè, che pare uscita da Fantasia di Walt Disney e che dimentica di rappresentare compiutamente, per eccesso di sventolio cromatico e di pretesa simbolica, il potere seduttivo della donna. Imbarazza la resa recitativa della disputa dei cinque ebrei, con gli interlocutori che entrano alla spicciolata e all’improvviso, giusto in tempo per le rispettive battute, senza essere stati preventivamente amalgamati nel paesaggio sociale dell’azione. La delusione è ufficializzata quando, per la memorabile scena finale di Salome in erotico congiungimento con la testa mozzata, finalmente si vede – e con netta cesura – la principessa su un ben più pregnante fondo nudo, a divincolarsi e avvinghiarsi in un’ossessiva moltiplicazione, dall’alto, delle trecce pendenti dal capo di Jochanaan: soltanto negli ultimi quindici minuti si assiste così alla lettura teatrale, potenzialmente notevole, fin lì lasciata al completamento immaginativo dello spettatore e alla sua generosa indulgenza.
Per fortuna, in scena agisce una protagonista di singolari intelligenza, studiosità e abnegazione, tale da risvegliare con carisma l’interesse sonnecchiante: arrivata di corsa dopo l’ultima recita di Anna Bolena a Venezia, per sostituire in extremis a Firenze la prevista Allison Oakes, Lidia Fridman rivela una confidenza straussiana anche migliore di quella donizettiana, e vanta un’insondabile, introversa, insidiosa eleganza di porgere – più sottilmente italiana o francese che matericamente germanica o anglosassone – là ove molte colleghe baderebbero giusto a reggere lo sforzo fisico di una scrittura massacrante. Herodias è invece una parte-baluardo benvoluta da caratteriste di genio che siano state – o siano tuttora – anche vocaliste di spessore: Anna Maria Chiuri, eccellente, dà luogo a un personaggio vivido e sfaccettatissimo, degna madre di diabolica figlia, immunizzandolo dal rischio di scadere in macchietta. Il discorso non si ripete identico intorno allo Herodes sostenuto da Nikolai Schukoff, cantante che sta passando da ruoli heldentenorili a un semi-comprimariato di qualità; la prestanza vocale va infatti già affiochendosi mentre il caratterismo va ancora formandosi: la scrittura, però, è di lusso. Brian Mulligan lavora sotto penalizzazione: per farsi udire fuori dalla cisterna dantiano-bomarzese, il suo pur prestante e impegnato Jochanaan necessita di una fastidiosa amplificazione artificiale, con ciò vanificando il tuonare profetico degli anatemi, che dovrebbe invece impressionare senza aiutini. Flebile il Narraboth di Eric Fennell, vellutato il Paggio di Marvic Monreal, quintetto degli Ebrei assortito con una certa casualità – a danno della virtuosistica, menzionata disputa – e superato in materiale e chiarezza dai Nazareni di William Hernandez e Yaozhou Hou.
Resta da dire sulla concertazione di Alexander Soddy, chiudendosi così il discorso sulle interpretazioni che dovrebbero valere un premio e si fermano invece a un professionale, benché luccicante tentativo. I riflettori puntati su questo musicista, nell’orizzonte italiano del più attuale presente, sono giustificati da due ordini di fatti. Primo: egli è un nome relativamente nuovo, nella penisola, dopo i fortuiti debutti dell’anno scorso all’Accademia nazionale di Santa Cecilia, sostituendo Jaap van Zweden nella Sinfonia n. 5 di Anton Bruckner, e al Teatro alla Scala, sostituendo Christian Thielemann nel Rheingold di Wagner (e da lì nell’intero Ring des Nibelungen); chi segue l’attività a livello europeo, invece, lo conosce già da tempo come puntuale interprete mozartiano, wagneriano e straussiano in particolare: uno di quelli con i quali si completano locandine di pregio ma in genere sbilanciate verso il primato dei cantanti (le prime due opere del Ring scaligero, guarda un po’, non hanno recato alcun miracolo direttoriale). Secondo: il Maggio Musicale Fiorentino non ha ancora scoperto le carte sull’identità del futuro direttore musicale, ma il primo indiziato è appunto Soddy, impegnato quest’anno nientemeno che nell’opera inaugurale del festival, in un concerto correlato nonché in un prossimo Macbeth verdiano (mentre già si sente parlare di ingenti progetti successivi); difetti di tale operazione, se poi mai confermata: egli non è mai salito sul podio del Teatro del Maggio prima di questa Salome, e il suo profilo d’interprete potrebbe essere esterofilamente in corso di sopravvalutazione (si tratta, del resto, di succedere a gentaglia qualunque: Riccardo Muti, Zubin Mehta e Daniele Gatti).
Bene: com’è la Salome secondo Soddy? Si ammirano, all’ascolto, la trasparenza dello strumentale, l’esuberanza del fare assieme, l’articolazione degli archi, il cantare dei legni, lo splendore degli ottoni: tutte qualità che tuttavia sono recate in dote, di per sé, dall’Orchestra del Maggio, la meglio ambivalente, in Italia, tra cantabilità e gigantismo, rispettivamente, della fonica italiana e tedesca. Latita invece – questa è al contrario una prerogativa del direttore, che qui stacca convenzionali tempi della tradizione – l’increspatura che aggiunga a una lettura orchestralmente di bravura la definizione di una psicologia, il suscitamento di un’atmosfera, la morsicatura di una morbosità. Latita la musica che sappia farsi vivo teatro (e magari aiutare, nel contempo, i cantanti).
Giova a raccapezzarsi l’ascolto del correlato concerto del 26 aprile, sempre al Maggio, la sera prima dell’ultima – dunque definitiva e qui in oggetto – recita di Salome: Soddy sul podio, stessa orchestra, monografico programma anch’esso straussiano. Le perplessità di stratificano. Nelle due Walzerfolge tratte dal Rosenkavalier, la richiesta di rubato alla viennese – quello che Soddy riscuote così bene alla Staatsoper: ma a servirglielo, là, sono i Wiener e di default – si traduce, in orchestra, nelle irrigidite micro-sfasature di chi non sta ricevendo istruzioni chiare su come derogare al metronomo. Nel Concerto n. 2 per corno, il solista Alessio Dainese, giovane e disinibito fuoriclasse, orgoglio della compagine fiorentina, conduce il discorso con avvincente arte retorica, mentre la bacchetta gliene muove intorno uno simultaneo, non scambievole, assai meno entusiastico e assai meno entusiasmante. In Also sprach Zarathustra, infine, l’orchestra replica lo sfarzo già ostentato tre anni fa con Mehta nel medesimo poema sinfonico, ma lascia di stucco come Soddy, inesorabile, insensibile, stronchi alla selva di ferratissime prime parti lo spazio onde dar respiro mobile e naturale ai loro frequenti interventi solistici. Ammesso che il designato sia proprio lui: sicuri che si tratti del direttore musicale in più meritata sintonia con la natura artistica del Maggio Musicale Fiorentino?
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