L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La farfalla e la bacchetta

di Roberta Pedrotti

A Firenze Madama Butterfly coglie nel segno grazie alle prove eccellenti di Yasko Sato come Cio Cio San e di Juraj Valčhua sul podio, perfetto esempio di feconda simbiosi fra due intelligenze musicali e teatrali che evitano il facile effetto per arrivare al cuore del testo.

FIRENZE, 8 febbraio 2014 - Madama Butterfly è il dramma della solitudine e dell'abbandono, è la crudele parabola dell'illusione e della disillusione e la sua architettura musicale verte inevitabilmente su due pilastri cardinali: la protagonista, fulcro unico e costante di un'azione prima di tutto psicologica, e il podio, che con lei e intorno a lei deve realizzare l'atmosfera morale e la drammaturgia del Puccini più sottile e profondo.

A Firenze, per il secondo appuntamento della stagione lirica invernale, questi due cardini dialettici sono stati incarnati da Yasko Sato [guarda l'intervista] e Juraj Valčhua con esiti perfino rivelatori della grandezza insita in questa partitura, sublime quanto abusata e strapazzata nella sua immensa popolarità. Eppure, ascoltandola così, non solo ci pare di riscoprirla e ne delibiamo incantati le sottigliezze e la calibratissima drammaturgia, ma rimaniamo avvinti dalla naturalezza perfino lapalissiana in cui l'opera si fa reale e sublima nel canto e nell'orchestra l'essenza e l'intimità di un'anima vera, senza per questo doversi accalorare in esteriori slanci veristi.

Il soprano canta veramente all'italiana, con una padronanza della prosodia, una naturalezza e una chiarezza nell'articolazione, nella pronuncia, nel senso che molte madrelingua potrebbero invidiarle. Così, sulla base di un'emissione franca e rotonda, senz'ombra di forzatura, si fa maestra del canto di conversazione, controlla con variazioni appena percettibili ma per questo ancor più suggestive il colore e la vibrazione stessa della voce per delineare il personaggio in tutte le sue sfaccettature con gusto sopraffino e una spontaneità nel porgere perfino disarmante, tanto è sobria, raffinata e autentica.

La quindicenne del primo atto non bamboleggia, né lo fa la giovane donna illusa che apre il secondo. La sua ingenuità è ancor più toccante perché espressa nel candore e nel riserbo di un canto che ha l'innocenza dell'infanzia ma non è infantile, anzi, palpita di passione, tuttavia la difende gelosa, esattamente come l'ultimo ricordo del padre, dallo sguardo di “troppa gente”. La figuretta da paravento, con un subito moto di scoiattolo ci rivela tutta la sua profondità. Questa Cio Cio San “ci crede”, anche perché vuole crederci; il suo essere sfuggente, il suo fremere di fronte alla passione di Pinkerton aggrappandosi alle immagini fiabesche della "piccola dea della luna" ci raccontano una delicatezza consapevole, forse un interno presagio custodito ansiosamente in un'anima troppo grande, nella forza e nella delicatezza. Il confine fra il suono chiaro, dolcissimo, dell'innamorata che ascolta la lettura della lettera e sogna il ritorno dello sposo e quello quasi astratto, allucinato della donna che ha compreso la verità è giustamente sottilissimo. Yasko Sato non si compiace d'un virtuosismo espressivo, ma vive l'essenza espressiva della parola e della musica, entra in simbiosi con la ricerca timbrica di Valčhua e di un'orchestra in stato di grazia, capace di dipanare senza frenesia tutti i dettagli della partitura, con un suono terso, limpido ma percorso da ombre, eburneo o iridescente, venato d'inquietudini e turbamenti, intimamente drammatico. Perfino il coro a bocca chiusa suona come mai l'avevamo sentito (merito anche di Lorenzo Fratini e degli eccellenti complessi fiorentini): come un frinire di grilli, voce panica della notte e della natura che si fa canto dell'attesa, della speranza e dell'angoscia.

Valchua non cerca l'effetto, anzi lo rifugge, come lo rifugge la Sato, che non punta sulle grandi frasi, ma fa di ogni parola, in un unico discorso, un piccolo gioiello di intelligenza teatrale e musicale. Insieme costruiscono un crescendo emotivo fatto di intimi dettagli, sottintesi, suggestioni. Anzi, l'assenza dell'atteso, abituale effetto, crea una sorta di senso di vertigine, un vuoto studiato ancor più lacerante. Sarebbe stato facile fare di “Che tua madre dovrà” un pezzo strappacuore e strappa applausi, ma la compunta, dignitosa gravità con cui il soprano lo scandisce, la sua stessa postura scenica dicono molto di più. Dice di più il tono con cui annuncia “La mia fe' trionfa intera! Ei torna e m'ama!” che non ha nulla, in realtà, del trionfo, ma piuttosto di un inquieto aggrapparsi a quella che era ormai l'unica ragione della sua vita. Valčhua infatti le risponde con una cupa pienezza orchestrale gonfia di presagio, che trasecolora subito in un duetto dei fiori preziosissimo, ma anche sottilmente ambiguo, che nulla ha del decorativismo liberty, piuttosto ne esplora le spire più profonde e inquietanti. Si sente già l'amara fragranza velenosa avvertita da Pinkerton, già l'aroma perverso e fatale degli “amici fiori” di Suor Angelica. Fino alla fine l'esplosione drammatica è trattenuta, non trova sfogo esteriore, l'interiorità non è esibita, ma continua ad accumulare la tensione, passo dopo passo, fino alla scena del suicidio, concentrata in una sacralità che ci lascia senza fiato, per la capacità formidabile della Sato e di Valčhua di infondere profonda dignità, solennità e nel contempo toccante desolazione, viva commozione nell'istante in cui tutto si compie e Cio Cio San si trova infine a constatare, sola con se stessa, la fine dell'illusione coltivata fin dal primo istante, ad aprire finalmente il suo cuore ormai svuotato e privo d'ogni ragione per battere ancora.

Così intendiamo l'arte del melodramma che rende l'opera straordinaria: l'intelligenza di lavorare profondamente nella musica e nel testo, di rinnovarsi sempre senza sovrapporsi alla partitura, senza farne uno strumento del proprio ego, ma comprendendola e interiorizzandola nelle più intime sfumature, senza puntare all'esibizione di una serie effetti e di note spettacolari, ma piuttosto alla concretizzazione di un pensiero musicale compiuto.

Spazio efficace per il realizzarsi dell'alchimia fra Valčhua e la Sato è l'allestimento di Fabio Ceresa (regia), Giada Tiana Claudia Abiendi (scene), Massimo Carlotto (costumi e Pamela Cantatore (luci). Essenziale, semplicissimo, magari imperfetto, ma senza pretese, chiaro e agile (nonché decisamente economica, il ché di questi tempi non guasta certo): nato per la Scuola dell'Opera di Bologna e già visto in molti teatri italiani, presenta qualche momento statico o convenzionale (la scena del matrimonio), ma anche delle belle intuizioni, soprattutto nell'uso delle luci e nella lucida rappresentazione della solitudine d'un giardino asettico, sospeso come un labirinto sul laghetto della collina.

Il resto del cast è solo una pallida cornice e delude assai il tenore Vincenzo Costanzo. Ventiduenne già esposto all'interesse di grandi teatri e impegnato in cimenti protagonistici non indifferenti, Costanzo ha un'impostazione tecnica ancora tutta da costruire, tradisce troppo spesso l'acerbità del mezzo, sottoposto a pericolose forzature, fra emissioni spinte e suoni di fibra. Ovviamente la musicalità e il fraseggio restano parimenti duri e limitati. Vista l'età del ragazzo non si può che consigliargli una pausa di studio di riflessione: ne ha tutto il tempo, altrimenti temiamo seriamente che la sua carriera possa essere quella di tante meteore che si bruciano, sovraesposte, nello spazio di un paio di stagioni.

Vincenzo Taormina, Sharpless, ricerca, talora con successo, un fraseggio variegato, ma lascia perplesso per alcune disomogeneità d'emissione. Manuela Custer, Suzuki, è pure artista assai personale, mai banale, dalla vocalità non priva di qualche spigolo.

Roberto Covatta era Goro, Williamo Corrò Yamadori, Cistian Saitta lo zio Bonzo, Diego Barretta Yakusidé, Ivan Marino il commissario imperiale, Vito Luciano Roberti l'Ufficiale del registro, Sabina Beani la madre, Ilaria Sacchi la zia ed Eun-Young Jung la cugina.

Il pubblico piuttosto folto, per quanto non arrivi a esaurire gli ampi spazi del Comunale fiorentino, ci conforta, e ancor più la calorosa accoglienza riservata a questa Madama Butterfly, che, nonostante non abbia potuto dirsi epocale in ogni suo elemento, ricorderemo a lungo per l'unione così feconda delle due intelligenze interpretative cardine dell'opera.

 


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