L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Amina nella routine

di Francesco Lora

Nella Sonnambula alla Fenice si apprezza di nuovo l’allestimento con regìa di Bepi Morassi, scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo. Persino censurabile è invece la lettura musicale di Fabrizio Maria Carminati, mentre la coppia protagonistica finisce offuscata dal Conte Rodolfo di Roberto Scandiuzzi e dalla Lisa di Silvia Frigato.

VENEZIA, 2 luglio 2017 – Al Teatro La Fenice è da poco calata la tela sulle tre opere di Monteverdi dirette da John Eliot Gardiner: «L’Ape musicale» c’era e non se n’è dimenticata; è solo mancato, sinora, il fegato di scriverne [leggi la recensione uscita il 6 luglio 2017]. È più semplice dare conto delle cinque recite della Sonnambula di Bellini ora in corso nello stesso teatro: 30 giugno - 8 luglio. L’allestimento scenico è ripresa di quello varato nella primavera 2012. Le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Carlos Tieppo e le luci di Vilmo Furian trasportano l’azione in una stazione sciistica degli scorsi anni ’30. La regìa è a sua volta di un artista locale con granitica esperienza, Bepi Morassi, cui il massimo teatro veneto fa strabene a rinnovare incarichi: il discorso drammatico scorre anche qui sempre chiaro, curato, brillante, giocando con padronanza stilistica nel testo e senza porsi di traverso alla sua immediatezza. Da prendere con risoluto distacco, per non uscirne increduli o inferociti, è invece la direzione routinière di Fabrizio Maria Carminati: tempi slentati sino alla paralisi retorica e tinte plumbee sino alla liquidazione timbrica. In più, una collezione di tagli alla partitura quale un teatro con l’autorevolezza della Fenice mai dovrebbe autorizzare: se le riprese delle cabalette cadono a raffica, lasciando ciascun numero sproporzionato nelle sue sezioni, la stretta del Finale I è ridotta a un risibile mozzicone, che dopo l’attacco a terze e seste parallele della coppia amorosa immette subito a una porzione diradata della coda.

Quanto a Irina Dubrovskaja, enorme è la fiducia in lei riposta dalla scena veneziana: v’è apparsa come primadonna in tre farse rossiniane e nel Rigoletto, nell’Elisir d’amore [leggi la recensione] e nella Traviata; sgrana ammirevolmente il trillo e vanta smalto nel registro centrale; fatica però a cavare un personaggio da versi memorizzati senza bastante approfondimento espressivo, e la parte di Amina la pone a cimento non solo nel registro grave, che dovrebbe essere più sostanzioso, ma anche in quello acuto, che risuona opaco, timoroso e schiacciato. Dopo cinque anni, Shalva Mukeria è invece riconfermato come Elvino e si ripete con la solita generica eleganza, fatta d’emissione in punta di labbro ma non priva di fibrosità, e di sensibilità ai colori ma materia timbrica piuttosto arida. Per entusiasmarsi bisogna attendere la sortita – e poi seguire avidi ogni battuta – di Roberto Scandiuzzi come Conte Rodolfo: impigrito e sornione, mezzi non più intatti, egli conserva però voce subito riconoscibile e portentosa nella ricchezza di armonici; per non dire della dizione superba e della brillantezza attoriale, con cui ogni passo dell’opera è illuminato in maniera personale. L’altra gemma della compagnia è Silvia Frigato, qui distolta dal repertorio barocco per sperimentare quello romantico: la sua Lisa è tanto viperina nella recitazione quanto forbita in stile e tecnica, oltre che smaliziata signora delle sottigliezze prosodiche precluse – per esempio – alla primadonna.


 

 

 
 
 

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