L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ma per fortuna è una notte di luna

 di  Andrea R. G. Pedrotti

La debolezza della messa in scena della Bohème al Teatro Massimo di Palermo è redenta da un'eccellente lettura musicale curata da Daniel Oren con le voci di Stefan Pop, Valeria Sepe, Jessica Nuccio e Vincenzo Taormina.

PALERMO, 19 dicembre 2018 - La bohème è certamente uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi, un’opera di cui non si ha mai abbastanza, un’opera che sa regalare sempre un motivo nuovo per commuoversi. Giacomo Puccini seppe tradurre in musica lo struggente romanzo di Henry Murger, un libro reale, attuale, che racconta la vita bohèmienne che potrebbe essere di ieri come di oggi.

Anello debole debole della produzione andata in scena al Teatro Massimo di Palermo è stata la regia di Mario Pontiggia, nell’occasione ripresa da Angelica Dettori.

Partiamo dal primo quadro, durante il quale è impossibile non riscontrare numerosi errori: siamo in una soffitta, piuttosto ampia, ma sostanzialmente conforme alla tradizione e, infatti, il vero problema non sono le scene, o i costumi, che comunque non hanno uniformità stilistica nella confezione da un primo Novecento andando a ritroso di almeno una trentina d’anni (cravatte in primis), ma una mancata cura nei movimenti e nei rapporti relazionali. È tutto troppo meccanico, studiato, sia nella giocosità della vita da studenti sia nel rapporto fra Mimì e Rodolfo. Pensiamo, per esempio, al momento in cui la giovane grisette parigina ha il primo malore, trovandosi come una statua di sale, improvvisamente svenevole, alla domanda di Rodolfo “Si sente male?”. Durante tutto il duetto i due si alternano in proscenio, interagendo, poco pochissimo. Un grande interprete di Rodolfo (Rolando Villazòn), una volta, sottolineò come osservando l’amata della finzione scenica, bisognasse trasformare sempre la partner di scena nella donna più bella del mondo, nella più meravigliosa. Come si può pensare di ottenere lo stesso effetto se si obbligano i due protagonisti ad avanzare in proscenio alternativamente e mantenendosi sempre a debita distanza fra loro. Come sul nascere di un amore reale, si sovrebbero provare le medesime farfalle nello stomaco, capaci di librarsi nel volo della commozione, quando scocca la scintilla che porterà alla reciproca, esplicita, dichiarazione, fra Mimì e Rodolfo, magistralmente individuata da Puccini in quel “Oh! Sventata! La chiave della stanza dove l’ho lasciata?”, quando l’orchestrazione, d’improvviso, si trasforma e dà l’impulso alla genesi di quello che sarà un drammatico sogno d’amore.

Il secondo quadro non offre di meglio. Ora sono Musetta e Marcello a comportarsi in maniera simile; la coppia fra Mimì e Rodolfo è apollinea, mentre loro sono puramente dionisiaci, ma, tuttavia, esistono degli autentici universali linguistici nella relazione amorosa. In questa produzione l’universale è un solitario proscenio.

Dietro i protagonisti di solitario, al contrario, c’è ben poco con gruppi di grisettes in sgargianti abiti dalle tinte assai vivide e boa al collo che agitano alla maniera delle ragazze del Ring negli incontri di box cartelli con la scritta Momus. Le masse corali, in questo stesso atto, non sono distribuite con opportuno criterio, tanto da distogliere in più occasioni l’attenzione da un’azione già viziata dalle mancanze nello studio relazionale.

Terzo quadro sostanzialmente tradizionale, senza particolari dettagli degni di nota, ma nel quarto tornano a sorgere i dubbi: siamo nuovamente nella soffitta, si vedono i cieli bigi, i comignoli parigini, ma perché Rodolfo, Colline, Marcello e Schaunard (ancora tutti impegnati nelle loro garrule attività assai poco remunerative) sono vestiti in candidi abiti bianchi alto-borghesi di inizio Novecento? Perché la povera Musetta dovrebbe vendere i suoi orecchini per un manicotto, se loro dimostrano di potersi permettere un vestiario tutt’altro che da bohèmien?

Un ultimo dettaglio fra i tanti: quando Schaunard comunica l’avvenuto decesso di Mimì a Marcello, perché quest’ultimo si dispera platealmente? “Quell’andare e venire” in lacrime effettivamente poteva destare ben pochi dubbi in Rodolfo, che non avrebbe nemmeno bisogno di domandare, prima di scoprire che la fanciulla che aveva tanto amato apparteneva ormai al regno dei più.

Per fortuna a Palermo, tuttavia, era una splendida notte di luna e ciò in cui non è riuscita la messa in scena, è riuscito alla musica.

Eccellente il Rodolfo di Stefan Pop, che conferma i progressi vocali e, soprattutto, interpretativi, dopo la bella prova bergamasca in Il castello di Kenilworth [leggi la recensione]. Al fraseggio espressivo e allo squillo sicuro si somma una crescente raffinatezza nelle smorzature e nella capacità di porgere la frase. Miglior momento della serata è il terzo atto, quando con Valeria Sepe (Mimì) si rende protagonista di un’esecuzione dall’emotività debordante e coinvolgente. Parimenti al collega, il soprano napoletano sfoggia le sue armi migliori proprio in quest’atto e in tutte le parti maggiormente drammatiche ed elegiache, grazie a una vocalità capace di esaltarsi nelle grandi arcate di fiato e nell’ampiezza della frase. L’esecuzione di “Donde lieta” è struggente, grazie a un’espressività sostenuta da una notevole ricchezza di armonici.

Piace anche Vincenzo Taormina (Marcello), dotato di grande incisività nel fraseggio e di adeguata precisione musicale.

Jessica Nuccio è una Musetta dall'accento impertinente nel secondo quadro e romantico nel quarto. La voce è bella, l’emissione esatta e la capacità scenica adeguata al personaggio, almeno per quanto consentito dalla messa in scena.

Ottimi lo Schaunard di Christian Senn e il Colline di Marko Mimica.

Completavano il cast Angelo Nardinocchi (Benoît/Alcindoro), Pietro Luppina (Parpignol), Giuseppe Toia (Sergente dei doganieri) e Alfio Marletta (un venditore di prugne).

Alla guida dei complessi orchestrali palermitani, ritroviamo un Daniel Oren efficace, preciso, composto nel gesto. La sua lettura della partitura è ineccepibile sia nell’intenzione, sia nell’esecuzione, grazie anche all’ottima qualità di un’orchestra fra le migliori nel panorama delle Fondazioni liriche italiane.

Bene il coro degli adulti, diretto da Piero Monti, ma è eccellente quello delle voci bianche, diretto da Salvatore Punturo.

Oltre che dal regista Mario Pontiggia (qui ripreso da Angelica Dettori), la parte visiva era curata da Francesco Zito (scene e costumi) e Bruno Ciulli (luci). Antonella Conte era l’assistente alle scene, Chicca Ruocco ai costumi.


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