L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Se arridon le stelle

 di Antonino Trotta

Rinvenute fortuitamente in un deposito del Teatro Regio di Parma, le scenografie di Giuseppe Carmignani tornano in vita accolte dal calore di un pubblico entusiasta. All’ottima concertazione di Sebastiano Rolli si affianca un parterre vocale affiatato, dal quale spiccano il Riccardo di Otar Jorjikia, l’Amelia di Valentina Boi e l’Ulrica di Agostina Smimmero. Splendida la prova del Coro.

Parma, 19 Gennaio 2018 – Più volte, durante la stesura della bozza di questo articolo, la parola “fortuna” si è insediata tra le righe di un’ouverture troppo ingenerosa alla dolcezza del ricordo. A dire il vero, le note di sala, nel descrivere l’inaspettata circostanza di riscoperta delle scenografie originali realizzate da Giuseppe Carmignani per le celebrazioni del primo centenario della nascita del Maestro bussetano, invitano a cedere al fascino romanzesco della dea bendata. Affidare però alla sola buona sorte i meriti di una serata così coinvolgente avrebbe commesso un imperdonabile torto al lavoro certosino condotto del Teatro Regio di Parma: oltre all’impegno proficuo di Rinaldo Rinaldi nel ripristino dei fondali (documentato dalla videoproiezione di Stefano Cattini sul procedere del preludio), punto di partenza per lo splendido (ri)allestimento di Un ballo in maschera, sono infatti l’accurato disegno registico e l’eloquente discorso musicale a trasformare l’eccezionale ritrovamento in un’esperienza teatrale di grande impatto, facendo dello spettacolo una macchina del tempo per vivere e vedere vivere l’opera con gli stessi occhi di Giuseppe Verdi.

A sipario aperto, lo sguardo sembra perdersi nella vivacità dei colori e nella tridimensionalità che il sorprendente effetto prospettico dei quadri di Carmignani, sovrapposti a più livelli di profondità e valorizzati dalle luci di Guido Levi, regala alla percezione puramente spaziale del palcoscenico, nonostante esso si riduca in pratica alla ribalta. La paratestualità della dialogica visiva, arricchita dall’essenziale e puntuale attrezzeria di Leila Fteita, eccelle nel primo atto, quando la sala del governatore sconfina nella maestosità di un palazzo imperiale e nell’abituro dell’indovina, con corretta citazione storiografica intesa come uno sciamano pellirosse, la sacralità del rito si mescola all’oscurità della magia nera. È questo il frangente in cui di fatto la guida scenica di Marina Bianchi, ben supportata dalle coreografie demoniache di Michele Cosentino, acquista una calligrafia più personale: tra esorcismi e invocazioni appaganti per la vista e corroboranti per la narrazione, l’elemento gotico del dramma trova la giusta esaltazione senza alcuna distrazione dal contesto musicale e testuale. Per il resto dell’opera, invece, la regia sembra muoversi in punta di piedi, con un passo cauto non per mancanza di idee, ma per l’assoluto rispetto della storia raccontata dagli immensi fogli di carta dipinta, lasciando quindi la caratterizzazione dei protagonisti alla discrezione del singolo interprete o, meglio ancora, di Verdi. Solo la scelta, nel finale secondo, di abbandonare Amelia in balia delle molestie dei congiuratori solleva qualche perplessità, soprattutto per lo sconto che un simile gesto fa alla conflittualità di Renato, sempre in bilico tra amore e odio, fedeltà e risentimento, riflessione e impulso.

In linea con l’elegante messinscena, la direzione di Sebastiano Rolli s’impone per la sopraffina espressività nella lettura della grandiosa partitura, in cui il lirismo passionale del melodramma italiano si stempera nella brillantezza comique d’estrazione francese. Alla guida dei complessi dell’Orchestra Filarmonica Italiana e dell’Orchestra Giovanile della Via Emilia, il maestro parmense sottolinea ogni recondita trama dell’esaustivo dettato verdiano restaurandone, al pari del lavoro condotto da Rinaldi, la bellezza originaria. La teatralità della bacchetta aspira all’enfasi del dettaglio strumentale, all’indagine timbrica del manto sonoro – sublime il vaporoso tremolo nel tempo di mezzo del duetto tra Amelia e Riccardo o la ieraticità del rullare dei timpani prima dell’estrazione del nome nel terzo atto – e alla varietà nell’esposizione di una parabola musicale pregna di dinamiche e agogiche folgoranti. Premuroso, infine, il rapporto con il palcoscenico, rispetto al quale Rolli attesta un sincero senso di responsabilità.

Per il flessuoso velluto e la perizia cameristica negli staccati dell’introduttivo «Posa in pace», merita un doveroso riconoscimento la stupenda performance del Coro del Teatro Regio di Parma, istruito dal maestro Martino Faggiani.

Grazie a un timbro baritenorile appena velato da un sottile vibrato, Otar Jorjikia si dimostra un’altra piacevole scoperta della serata. Con sapida intelligenza e approfondita conoscenza dei propri mezzi, il cantante georgiano modella Riccardo su misura per il proprio strumento, connotando il conte di Warwick con una nobiltà principesca. Voce squillante e ben proiettata, contenuta nel volume ma penetrante, Jorjikia palesa un’ottima articolazione della parola – prendendosi anche il giusto spazio nelle parti dialogate per scandire con chiarezza ogni sillaba – a supporto di un fraseggio aristocratico e variegato, dove il gusto nella ricerca dell’accento pertinente e sapientemente sviluppato (nel quintetto del finale primo «È scherzo od è follia», ad esempio, si percepisce un tono sospeso tra l’inquietudine e l’irrisione) assicura un’interpretazione ispirata e convincente.

Non è una sorpresa, ma una conferma di prova in prova tendente alla certezza, l’Ulrica di Agostina Smimmero emerge dall’antro di una voce sontuosa e stregonesca che non teme l’affondo più profondo o la sciabolata più affilata. Animata da un coinvolgente spirito oracolare, il celebre «Re dell’abisso affrettati» esordisce nella pienezza di una carica drammatica travolgente, poi smorzata nel terzetto per intavolare una cantabilità quasi maternale nelle frasi rivolte ad Amelia. Sulle qualità strettamente vocali della Smimmero si è scritto già in altre occasioni e anche per questa prova si ribadiscono le impressioni avute nella Gioconda piacentina e nel Trovatore torinese: il suono alto a tutte le quote della tessitura conferisce omogeneità e timbra la voce, esaltando appieno la natura privilegiata dello smalto.

Nonostante la costruzione scenica del personaggio possa sembrare a tratti ancora acerba (il guardarsi intorno disorientata va bene nell’orrido campo o al massimo nell’antro della maga, ma nella studio di Renato rischia di sottrarre credibilità alla parte), l’Amelia di Valentina Boi spicca per l’opulenza del registro centrale. Se infatti si trascura qualche durezza nel do all’inizio del secondo atto, il soprano livornese crea nella dimensione strettamente vocale una donna appassionata e ardimentosa la cui audacia avvampa nella scena dell’urna, nel grande duetto d’amore o nel terzetto «Odi tu come fremono cupi». La linea vocale, luminosa e plastica, sorretta da un’emissione rigorosamente sul fiato, regala inoltre morbidissime filature, a testimonianza dell’ottimo dominio dell’impegnativo strumento.

Più datato per alcuni stilemi esecutivi, rispetto al quale la parola scenica risulta spesso abbastanza sacrificata (nella grande aria del terzo atto, dove l’interprete mette a segno adeguate sfumature vocali, ai versi «O dolcezze perdute, o speranze d'amor!» mancano molte consonati), il Renato di Sergio Bologna ottiene lauti compensi a scena aperta da parte del pubblico che ha dimostrato grande entusiasmo a partire già dal cantabile di sortita «Alla vita che t'arride».

Timbro lirico e agilità scattanti, Isabella Lee si disimpegna nell’estrosa scrittura di Oscar con sicurezza e buona dose di equivoca vezzosità. Imponenti il Samuel di Massimiliano Catellani e il Tom di Emanuele Cordaro. Completano correttamente il cast Fabio Previati (Silvano) e Blagoj Nacoski (un giudice/un servo di Amelia).


 

 

 
 
 

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