L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Faust II: Metamorfosi

 di Roberta Pedrotti

Il secondo appuntamento del ciclo I tre volti di Isabelle Faust del Bologna Festival ci trasporta dal classicismo viennese alla metà degli anni '80 del XX secolo, quando György Kurtág dedicò alla sua psicologa Marianne Stein i Kafka-Fragmente op. 24, straordinario capolavoro per soprano e violino.

Leggi la recensione degli altri due concerti

I tre volti d'Isabelle Faust: Illuminismo, 14/09/2015

I tre volti d'Isabelle Faust: Essenza, 20/09/2015

BOLOGNA 15 settembre 2015 - Anche l'insonnia della ragione genera mostri. La mente razionale che pensa se stessa, arriva all'estremo dell'analisi, al punto di rottura, si spezza in innumerevoli frammenti taglienti. Un turbine scintillante e affilato nell'oscurità, non meno insidioso dei mostri generati dal sonno.

György Kurtág raccoglie queste schegge negli scritti di Franz Kafka, piccole frasi fra appunti e scritti di vario genere, scelte più per il valore semantico del loro puro suono, per la musicalità, che non per il senso effettivo della parola e della frase. Si compone, allora, un ciclo liederistico apparentemente alogico, in realtà coeso proprio dalla sua natura frammentaria, ché non è sulla lettera che dobbiamo concentrarci, ma su tutto il contesto extra verbale, sulla sostituzione di un ordine logico a un altro, conseguenza della rottura causata dall'insonnia della ragione.

Nei vortici della mente atomizzata in schegge iridescenti, eterni e imprevedibili come il clinamen che Lucrezio eredita da Epicuro, balenano esperienze, pensieri, momenti vissuti o immaginati.

Una veglia onirica insaporita da una vena di witz ebraico, dichiarata almeno nel tredicesimo Lied della prima parte, Einmal brach ich mir das Bein (Chassidischer Tanz), Mi ruppi una gamba una volta (danza chassidica), e nel decimo della terza, Penetrant Jüdisch, Frizzo ebraico, ma sempre presente, benché in forma trasfigurata, fra il grottesco, il tragico, l'astratto e trasognato.

Non a caso, dunque, non sarà il pianoforte ad accompagnare il ciclo-clinamen di micro-Lieder, ma lo strumento per eccellenza dell'Ebreo errante, il violino. E accompagnare non sarà il verbo giusto.

Il violino, infatti, non è un sostegno al canto, non si pone dialetticamente in dialogo, confronto, duetto con la voce umana. Fra soprano e strumento si riconosce un'identità. Entrambi cantano la stessa cosa, sono la stessa mente, la stessa ragione. Ma questa mente e questa ragione si dibattono nell'insonnia, pulsano disgregandosi e riammassandosi in continuazione, in un'eterna metamorfosi. Si specchiano fra loro, con la vertigine del riflesso reciproco e infinito, cambiano di passo, si scambiano pensieri, li condividono, li sviluppano a vicenda, li contrastano, come un'armonica schizofrenia che sorge e si dissolve nella dimensione del sogno.

Voci della stessa veglia visionaria, soprano e violino non sembrano potersi porre limiti, consegnandosi incondizionatamente a una scrittura plastica ed esigentissima, perché, per ambedue, tutta un moto perpetuo e cangiante di sussurri, virtuosismi, danze, rarefazioni, frenesie, ansie, sorrisi, accenti morbidi e taglienti, fiammate drammatiche e sottigliezze trasognate. Canto e prosa. Senza, peraltro che al violino si richieda la tecnica anticonvenzionale sperimentata negli ultimi decenni: niente percussione sulla cassa, nessuna ricerca di suoni che non siano quelli generati da archetto e dita sulle corde, ma ad un livello di ricerca sonora e musicale vertiginosamente elevato.

È qui, allora, che Isabelle Faust mostra tutta la sua statura d'artista; la padronanza prodigiosa dello strumento (anzi degli strumenti, ché ama cambiare violino per alcuni Lieder con suggestivi effetti di colore), l'intonazione sempre impeccabile, l'esattezza naturale in una scrittura tanto insidiosa e proteiforme è un tutt'uno con il testo che canta senza parole, di cui esprime l'intrinseca musicalità e i sottintesi alla ribalta più del senso letterale di piccole frasi decontestualizzate o apparentemente futili. Un tutt'uno con la voce di Anu Komsi, interprete finissima dal fraseggio plastico, in totale adesione con il testo, senza risparmio, senza concessioni, senza ridondanze.

Il successo entusiastico tributato al termine del concerto, con applausi prolungati fino a strappare il fulmineo bis di uno dei frammenti del ciclo, conferma come, a questi livelli, non si dovrebbe  dubitare della fruibilità della musica contemporanea. È difficile da eseguire, sì, ma per una mente aperta non lo è certo all'ascolto, tanto è fisica, libera, plasmata sul senso profondo del testo e dell'opera per dare corpo all'insonnia angosciosa della ragione e alla sua metamorfosi nel sogno e nella sua interpretazione.


 

 

 
 
 

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