LA PAROLA SCENICA
Note di regia per Aida
di Raffaele Di Florio
Aida è sicuramente una delle cinque opere più famose al mondo. Il suo nome è equiparabile ad Amleto o Edipo, nomi di personaggi che vivono anche oltre l’opera che li contiene. Aida è soprattutto Teatro: quella relazione vitale che si stabilisce tra l’interprete ed il pubblico e che supera il linguaggio del tempo e dello spazio. Con Aida Giuseppe Verdi sintetizza in maniera prodigiosa tutta l’esperienza del teatro musicale precedente al 1870, prendendo spunto dalla riforma wagneriana ed adattandola, con felice intuito, ad una nuova forma. Per la prima volta, Verdi lascia tutti i suoi precedenti metodi per dedicarsi ad un progetto musicale che non attinge a nessuna opera letteraria alta e sublime. La trama di Aida è soggetto originale che si basa su una struttura “geometrica”, composta da un doppio triangolo: il triangolo “amoroso” (tra Aida e Radames e tra Amneris verso Radames) ed il triangolo “politico” (il Re, Ramfis il capo dei sacerdoti ed Amonasro, il capo degli etiopi e padre di Aida). Questi due triangoli si confondono, si sovrappongono e questo doppio piano, quello politico e quello privato, quello drammatico e quello storico, costituiscono il fulcro del capolavoro verdiano. Antonio Ghislanzoni, il librettista, fu chiamato da Giuseppe Verdi a “mettere i versi sullo scenario”; tra i due ci fu un fitto scambio epistolare in cui il tema centrale della costruzione dei dialoghi era “la parola scenica”. In una lettera indirizzata al librettista, a proposito del duetto tra Amneris ed Aida del Secondo Atto, Verdi scriveva: “Le strofe vanno bene fino a te in cor destò… Ma quando in seguito l’azione si scalda mi pare che manca la parola scenica”. Che cosa è dunque la “parola scenica” per Verdi e perché diventa il motivo dominante nella nostra messinscena? Per Verdi la parola scenica è quella che riassume l’azione, quella che rende una situazione chiara: “So bene che Ella mi dirà (riferito a Ghislanzoni, n.d.a.) Ed il verso? E la rima? E la strofa? Non so che dire. Ma quando l’azione lo domanda bisogna abbandonare subito ritmo, rima e strofa. Fare dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige. È necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica”. Questo piccolo frammento epistolare diventa l’assioma delle nostre note di regia, suggerisce alcune indicazioni agli interpreti e chiarisce la centralità dell’Aida: la parola scenica, cioè l’azione verbale che diventa immediatamente musica. Questo significa che i movimenti di scena si riducono all’essenziale, cedono il posto al concreto che non è naturalismo ed esalta la composizione visiva. La nostra Aida non può guardare solo all’esotismo ottocentesco e, pur avendo presente le grandi messinscene del passato, cerca di trasfigurare l’estetica del tempo attraverso il filtro dell’arte “primitiva”, cara agli artisti del primo novecento. Agli interpreti è stato chiesto di pensare alla parola cantata come emanazione di uno stato d’animo concreto, “umano”, senza eccessi di “interpretazione”, ma che restituisca il vigore e la bellezza della musica. Agli spettatori il compito di giudicare se il lavoro svolto soddisfi il loro gusto.
Raffaele Di Florio