L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il virtuoso zen

di Lorenzo Cannistrà

Approda a Milano Bruce Liu, vincitore del primo premio assoluto al Concorso “Chopin” di Varsavia. Il suo recital al Conservatorio, per il Quartetto, ha mostrato luci e ombre che in vario modo hanno rivelato una personalità più complessa di quello che appare sotto i riflettori dei media

MILANO, 7/2/2023 – Qualche giorno fa, come di prammatica, è uscito sul Corriere della Sera – Milano l’articolo con l’intervista a Bruce Liu, in occasione del suo recital in Conservatorio. Il titolo del pezzo è tutto un programma: «Bruce Liu, il pianista “marziale”».

Non credo sia il caso questa volta di sparare sul titolista, se non altro perchè il pianista sino-canadese, che in realtà si chiama Xiaoyu, ammette candidamente di aver scelto questo nome ispirandosi a Bruce Lee, il mitico attore e artista marziale protagonista di successi planetari come Dalla Cina con furore. Quindi non si tratta di una invenzione giornalistica, ed anche piuttosto tristanzuola. Probabile invece che il nostro giovane pianista, a fronte di un nome che allittera con una marca di cellulari, ed essendo da anni residente in Canada, lo abbia cambiato internazionalizzandolo come del resto hanno fatto diversi altri artisti provenienti dal Celeste Impero, anche per ragioni di marketing. Effettivamente una certa vaga somiglianza con Bruce Lee gliela si può anche concedere, mentre non ci si può esprimere su altri elementi di ispirazione che Liu cita, come la vocazione mistica dell’attore, il quale in qualche modo è diventato addirittura la sua guida, il suo “guerriero interiore” (sic).

Che sia stato con o senza l’aiuto dello spirito di Bruce Lee, il venticinquenne pianista cinese ha trionfato al Concorso “Chopin” di Varsavia nel 2021, imponendosi sulla scena internazionale come nuovo giovane virtuoso da seguire con attenzione. L’impressione, non solo mia, è stata però che sia stato premiato un giovane le cui doti – senza dubbio notevolissime – abbiano offerto il miglior compromesso all’eccellenza richiesta per il gradino più alto del podio. Il suo Chopin è stato efficiente, fluido, corretto, brillante… tutti aggettivi generici che confinano con il superlativo, ma che niente ci dicono sulla personalità dell’artista. Di certo non è stato lo Chopin solare, “italiano” e musicalissimo della Armellini, quello filosofico di Gadijev, quello concentrato e severo della Kobayashi, quello pieno di calda fantasia di García García e di Sorita. Questi pianisti, tutti compagni del giovane cinese nella finalissima di Varsavia, non hanno certo mostrato di essere superiori come strumentisti, ma di avere invece un quid spiccato di originalità tale quasi da relegare nell’anonimato il nostro Bruce. Si tratta peraltro, come è noto, di un vecchio vizio delle commissioni di concorso di tutto il mondo, a qualsiasi livello, ossia il vizio della prudenza, dell’accomodamento. Quella prudenza che più di quarant’anni fa, sempre allo “Chopin”, portò i commissari a scartare il futuro “divo” Pogorelich preferendogli il più accademico Dang Thai Son (ed è solo un caso che quest’ultimo figuri tra i maestri di Liu).

Per il tour di concerti che sta tenendo in alcune città italiane in questi giorni, Bruce Liu ha ideato un programma di tipo compilativo, senza pretese intellettuali, e con il solo rimando al Don Giovanni mozartiano nella seconda parte del concerto, nella duplice declinazione delle Variazioni op. 2 di Chopin e della fantasia Réminiscences de Don Juan di Liszt.

Il recital si apre con Rameau, autore sempre più frequentato in sala da concerto (e di incisione), rispetto al quale Liu non sembra proporre una visione ben precisa dei rapporti tra clavicembalo e pianoforte. La sua lettura è piuttosto sciolta, con tempi quasi uniformemente veloci, nonchè con fraseggio e tocco forse troppo prudentemente neutri. L’insieme è comunque assai gradevole, eseguito con buona concentrazione e con moderati inserti “romantici” specialmente nella Gavotte e i six doubles. Nel complesso siamo lontani tanto dalla severa quadratura della Meyer quanto dai personalismi e dal tocco sapido di Tharaud o Sokolov. A posteriori l’impressione è comunque che Liu abbia voluto puntare soprattutto su una impersonale vivacità, riscuotendo un buon successo di pubblico.

Con Chopin il clima in sala cambia, e di parecchio. Il pianista probabilmente si innervosisce perché sa che l’aspettativa è alta e su pezzi come Ballata op. 47 e Scherzo op. 54 non si può sbagliare. La scrittura è qui più nuda ed essenziale e tutti vogliono ascoltare come risuona il “suo” Chopin. Questo lo porta ad incappare in qualche errore “non provocato”, come si direbbe in gergo tennistico, cioè commesso in punti non estremamente impervi tecnicamente (tra cui anche qualche piccolo pasticcio nella sezione lenta dell’op. 54). Ma il nervosismo causa nel pianista soprattutto una leggera tensione nell’eloquio musicale, con il risultato che alcuni snodi nevralgici della Ballata vengono inopinatamente affrettati, mentre l’ironia beffarda dello Scherzo non viene sempre restituita al meglio. Nel complesso se la cava piuttosto onorevolemente, ma senza dar l’impressione di aver detto qualcosa di innovativo, né di essere rimasto nella tradizione con sicura convinzione.

La seconda parte è pensata ovviamente per esaltare le doti acrobatiche, e presuntivamente “marziali” del pianista. Da questo punto di vista sicuramente Bruce Liu non delude, trovandosi sicuramente a suo agio laddove la scrittura pianistica è maggiormente “rivestita” dall’abito del virtuosismo trascendentale. Vengono alla luce anche buone doti coloristiche, soprattutto nell’introduzione delle variazioni chopiniane. La resistenza e lo spolvero tecnico sono straordinari in Liszt e giustificano l’entusiasmo in sala alla fine della performance.

Mi sento tuttavia di fare una considerazione che contraddice apparentemente il giudizio appena espresso.

È tra le prerogative imperscrutabili di uno strumento così complesso come il pianoforte quella di svelare nell’atto dell’interpretazione chi siamo, cosa vogliamo dire, e talvolta chi vorremmo essere. È una sorta di cartina tornasole infallibile quando le scelte artistiche, vincenti o no, provengono comunque da un autentico afflato creativo e non sono dettate invece da un più modesto approccio puramente esibizionistico. In questo senso ho avuto la netta impressione che quello del virtuosismo spettacolare e circense non sia necessariamente, passatemi l’espressione, il core business del giovane pianista cinese, il quale si è mostrato fin troppo misurato, pulito e composto nel gestire le difficoltà pianistiche. È’ come se egli avesse una qual certa ritrosia ad ulteriormente colorire il Biedermeier di Chopin o ad aggiungere altra “carne” alla già nutrita creatura lisztiana: il che rivela, a mio parere, un sostanziale disagio nel doversi cimentare con questo repertorio. Voglio immaginare peraltro che quando l’autorevole Gramophone paragona Liu sia a Cherkassky sia a Cziffra, voglia proprio sottolineare che non solo di spericolate acrobazie è fatto questo musicista (benchè si sia ancora lontani anni-luce dal tocco sovrumano di Shura).

Ho avuto la conferma di questo disagio perfino nei bis, in cui Liu sembrava quasi più contento di portare un Bach corretto e quasi oggettivo (Allemande dalla suite francese BWV 816) piuttosto che la trita e ritrita Campanella di Liszt.

Il bilancio finale di questo recital mi lascia in definitiva tanto perplesso quanto speranzoso. Liu afferma nelle sue interviste che “ciò che tutti abbiamo in comune è la nostra differenza”: questa frase è una sorta di mantra per il pianista cinese, tanto da farne l’epigrafe della sua pagina web personale, ed è sicuramente un messaggio suggestivo e pregno delle cosmopolite esperienze di un giovane che ambisce a vivere in quello che definisce “triangolo ideale” (Europa, Cina, Nordamerica). Ma per fare la differenza non bastano i proclami, dal momento che Bruce Liu è fin troppo in buona compagnia nella sua ascesa verso l’olimpo concertistico. A contendergli lo scettro, solo per limitarci ai pianisti provenienti dall’area orientale, ricordiamo: Seong-Jin Cho, vincitore dello “Chopin” 2015, solidissimo e con un cervello musicale di prim’ordine; lo stupefacente Eric Lu, vincitore del Leeds (e, appena diciassettenne, quarto posto persino ingeneroso allo “Chopin” vinto poi da Cho); il “panzer” Yunchan Lim, fresco vincitore del Van Cliburn, che sembra in grado spazzare via i suoi pur valorosi rivali grazie ad una tecnica superba e una tenuta concertistica eccezionale. Per emergere tra questi giovani leoni il pianista cinese non potrà affidarsi solo al suo virtuosismo “zen”, asettico e a mani idealmente giunte, ma dovrà puntare convintamente proprio su quel lato femmineo, sensibile, poetico del suo pianismo, su quelle doti insomma di cui certo non difetta e che in parte ha sfoderato in questo concerto, sebbene egli non riesca ancora ad esprimerle al massimo grado.

In altre parole, e chiedo venia per il paragone che mi viene in taglio, per conquistare il suo posto d’onore nel concertismo internazionale Bruce Liu avrà bisogno, non meno che della forza di un Bruce Lee, anche della dolce determinazione di una Liù. E data la sua tendenza a trarre positive ispirazioni dal mondo di Hollywood, non dovrebbe avere difficoltà ad attingere anche a quello dell’opera, che ha dichiarato – sempre al Corriere – di aver scoperto da poco, e di amare già profondamente.


 

 

 
 
 

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