L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Colore e respiro

di Roberta Pedrotti

Per la stagione dei Pomeriggi musicali, l'accostamento di Šostakovič e Beethoven permette di apprezzare l'affiatamento fra Alessandro Bonato e Leonora Armellini, in un bel respiro comune di accenti e sfumature.

MILANO, 11 e 13 maggio 2023 - “Qualcuno è spaventato da Šostakovič” sussurra prima dell'inizio una voce dietro di noi, sembra che commenti l'assenza di conoscenti abbonati. Davvero c'è paura di Dmitrij Dmitrievič, il nome slavo e la vita nel XX secolo evocano asperità d'ascolto? Eppure la complessità della sua musica non è ostica, bensì tutta ricchezza, immagine della vita stessa in un intreccio di dramma e sarcasmo, tratti grotteschi e sincero, accorato lirismo, di reale e surreale, violenza e abbandono, speranza e disillusione. Questione è, semmai, per gli interpreti districarsi in questo microcosmo di prospettive possibili. Per Alessandro Bonato è la terza volta con la Sinfonia 110a, la trascrizione per orchestra d'archi curata da Barshai del Quartetto n. 8: dopo i concerti nelle Marche con la Form [Fabriano/Osimo, 19-20/02/2022] e quelli a Vienna con il Wiener Concert-Verein [Vienna, 03/03/2022], oggi a Milano con i Pomeriggi Musicali. Non muta l'impostazione di base, ma non è detto che lo stesso prisma si possa inclinare e illuminare in un modo soltanto. Anzi. In una partitura come questa, legata com'è a un pathos immanente, e in una lettura tutta giocata sul senso del respiro, non è certo un rigore prestabilito a dar forma al suono, bensì la capacità di vivere ogni dettaglio del testo anche in rapporto a chi ci si trova di fronte.

Gli archi dell'orchestra lombarda sono particolarmente ispirati, al meglio delle loro possibilità quanto a controllo e presenza in tutta la gamma dinamica: il piano è sottile, morbido, ma rimane compatto; il forte energico senza cedere in qualità. Una visione intima, dolorosa, di abbandono quasi spossato di fronte alla violenza e alla sopraffazione si declina, però, non tanto negli estremi dell'intensità, quanto nel loro naturale rapporto con l'articolazione delle legature, degli accenti, di quegli sforzati dolorosi che nella sezione centrale aprono ferite senza inutile, gridata violenza. Non c'è bisogno di gridare, non si deve gridare: la verità è nella sottigliezza dei dettagli e nella loro sintesi, nella minuziosa cura tecnica che si trasforma in fremito di riferimenti, citazioni, suggestioni, sentimenti in un unico palpito. Il pubblico lo coglie, il silenzio in sala è concentrato e partecipe, gli applausi calorosi e sinceri.

Parrà forse irrituale collocare il concerto solistico nella seconda parte del programma, ma non è senza logica, se al dolore attonito di Šostakovič risponde lo slancio ottimista del giovane Beethoven e del suo primo concerto per pianoforte. La solista Leonora Armellini dimostra subito bella complicità e sintonia con la concertazione di Bonato, soprattutto per il gusto e la sensibilità allo stile. L'eco galante non è lo svolazzare di un merletto rococò ricollocato a ornamento di un salotto borghese Biedemeier, ma un senso ben più profondo di aristocratico fraseggio, di grazia nel porgere e condurre il discorso e i dialoghi, la frase e i colori.

Si intende bene questo comune sentire già quando la prima esposizione dell'orchestra respira con chiara sprezzatura, una nobiltà non sussiegosa che lo scintillìo del pianoforte provvede a ravvivare con abile contrasto di articolazioni in uno stesso mondo poetico, in uno stesso linguaggio. Il tocco di Armellini è limpido, ma anche morbido e sfumato, mai fine a sé stesso, così che l'amplissima cadenza beethoveniana nel primo movimento si percepisce come necessario e spontaneo sviluppo scaturito dal rapporto fra pianoforte e orchestra. Un rapporto che sembra rimanere in filigrana, riverberarsi anche nei minuti in cui la ribalta è appannaggio esclusivo della solista per poi riprendere respiro nel lungo, tenero duetto con il clarinetto del secondo movimento. Questo a sua volta sembra doversi evolvere nel rondò, con il gioco continuo di risposte, scambi, reimpasti di timbri e voci. È Beethoven, lo si sente negli accenti che delineano cellule ricorrenti come codice genetico dell'intera scrittura. È Beethoven perché il retaggio settecentesco non sa di maniera, ma si vivifica pronto a trasformarsi in altro. Il merletto non è inamidato né liso, non s'impolvera, l'abile sarto è capace di dargli nuova vita in fogge diverse, e se anche lo metterà da parte non ne scorderà l'arte. Così, il gioco di Bonato e Armellini dà nerbo a tinte affettuose e dolcezza ad accenti vivaci senza che si perdano mai il giusto respiro e il rapporto di tempi e dinamiche, con un'orchestra complice e sempre stimolata a dare il meglio di sé.

I fuori programma che Armellini presenta nelle due date milanesi, Chopin (l'11) e Mendelssohn (il 13), confermano la cifra del programma e del suo meritato successo: la fondamentale e ferrea preparazione tecnica come strumento del gusto e della sensibilità musicale, senza i quali nulla ha senso.


 

 

 
 
 

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