L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Less is more

di Antonio Ponti

La ripresa del capolavoro donizettiano al Regio si rifà allo storico allestimento di Gregoretti e Guglielminetti risalente al 1988. Ben assortito il quartetto dei protagonisti, coadiuvato dall’eccellente bacchetta di Alessandro De Marchi.

Leggi anche la recensione della seconda compagnia: Torino, Don Pasquale, 31/01/2024

TORINO 30 genanio 2024 - Squadra che vince non si cambia. La tentazione di citare il motto popolare è forte se si pensa che questo Don Pasquale torinese riprende, con poche modifiche realizzate dalla sapiente mano di Riccardino Massa, lo storico spettacolo firmato dal regista Ugo Gregoretti, con scene e costumi di Eugenio Guglielminetti. Correva l’anno 1988, febbraio, 36 anni fa esatti. Presidente del Consiglio era l’astigiano Giovanni Goria, e, negli stessi giorni in cui sul palcoscenico del Regio debuttava l’allestimento, Massimo Ranieri trionfava a Sanremo con Perdere l’amore. Le recite erano quattro e di conseguenza, nonostante oggi spesso ci si lamenti delle poche sere di apertura dei nostri teatri, all’epoca erano ancora meno. Il protagonista era impersonato da Enzo Dara, Luciana Serra era Norina, sul podio Bruno Campanella. Il libretto dell’opera era sponsorizzato da Fiat Auto ‘edizione fuori commercio in occasione del lancio della TIPO’.

Pare passata una vita, e in effetti lo è. Eppure la ricostruzione della Roma ottocentesca di Guglielminetti conserva immutato un certo fascino ormai vintage. Poco colore, molto grigio e marrone in tutte le sfumature, con le silhouettes dei palazzi capitolini che paiono disegnate a china da un amante del capriccio architettonico. La profondità è poca e, se proprio si deve fare un appunto a una rappresentazione teatrale nel complesso valida, l’azione avviene spesso nella sottile e più esterna striscia di palco, che un piccolo canale separa dalla casa del protagonista e da una tipica piazzetta. Ne possono scaturire esiti divertenti: su tutti emerge il momento di ‘Cheti, cheti, immantinente’ con Don Pasquale e Malatesta che tramite due passerelle raggiungono la prima fila della platea e chiudono il duetto tra gli applausi scroscianti del pubblico, per la gioia del quale la stretta finale è ripetuta sul momento, graditissimo bis. La trama è molto nota e relativamente poco intricata, ma bisogna considerare che i cantanti sono solo cinque, di cui quattro i principali: il benestante e anziano Don Pasquale da Corneto, col suo improvviso ‘puntiglio’ (oggi si direbbe trip) di prender moglie, lo scaltro Dottor Malatesta, vero deus ex machina dell’azione, che combina le nozze, fittizie, con la vivace e giovane Norina facendola passare per sua sorella appena uscita di convento, salvo poi condurre in porto l’unione tra Ernesto, nipote di Don Pasquale, e la ragazza, rivelatasi una moglie insostenibile, troppo grintosa e dispendiosa per il vecchio, alla fine ben felice di liberarsi dal supplizio di un matrimonio poco ponderato benedicendo il nuovo legame.

Il meccanismo costruito dalla coppia Gregoretti/Guglielminetti funziona alla perfezione, all’insegna di un ‘less is more’ che nell’opulenza degli anni ’80 poteva forse scontentare gli amanti del lato spettacolare ma che ben si addice agli odierni tempi dove a contare è la sostenibilità anche del bilancio. Ecco allora le luci ben dosate da Vladi Spigarolo e le comparse scendere da 48 a 27, a beneficio di un titolo che in fondo vive in una dimensione da commedia intima, dove la comicità irresistibile, sottolineata da una musica sempre geniale e raffinatissima, convive con l’amarezza struggente della vecchiaia avanzata che presenta il conto della vita. Non mancano, nella partitura donizettiana, i momenti ombrosi e patetici, declinati con commovente ispirazione da un compositore che nel 1843 era allo zenit delle proprie possibilità espressive, colte appena un attimo prima del triste declino della malattia che sarebbe esplosa da lì a poco.

Punto di forza autentico, indispensabile trait d’union tra voci e scena è la direzione d’orchestra di Alessandro De Marchi, che sfodera dai musicisti del Regio un suono brillante, un timbro sapido e calibrato, un fraseggio croccante, un dinamismo che non concede tregua e momenti di stanca. Siamo di fronte a un maestro vecchia scuola, nel senso più nobile del termine, alieno da personalismi e formatosi sul repertorio barocco in grado di fornire gli strumenti per affrontare al meglio anche le generazioni romantiche e le successive. De Marchi sa bene quando spingere il piede sull’acceleratore per portare l’orchestra in primo piano e quando invece occorre fare un passo indietro, puntellare con garbo discreto ma attento la linea delle voci, come nella suggestiva, celebre serenata del terzo atto (‘Com’è gentil la notte a mezzo april’), cantata fuori scena da Ernesto con le tenui pennellate del coro, guidato a sua volta da Ulisse Trabacchin, che aveva avuto poco prima l’unico altro suo piccolo ma delizioso intervento (‘Che interminabile andirivieni’), in un esprit quasi alla Offenbach, che dimostra quando Donizetti avesse assimilato dall’ambiente parigino.

In una compagnia tutta italiana e di alto livello al quartetto di protagonisti si affianca il simpatico notaro di Marco Sportelli, presente unicamente nella scena del matrimonio.

Nicola Alaimo è un Don Pasquale coi fiocchi, in grado di padroneggiare con spumeggiante timbro baritonale tutte le risorse del basso buffo della tradizione che la partitura donizettiana mette a dura prova, a cominciare dalla cavatina ‘Un foco insolito’ dove la sicurezza dell’emissione si accompagna a un’ottima caratterizzazione espressiva, sfoderando una prestazione superba da capo a fondo, a suo agio come cantante e attore anche nella vena malinconicamente drammatica per il ricordo della perduta libertà, nell’esordio del già citato grande duetto con Malatesta. Simone Del Savio, d’altronde, è una spalla ideale, sia perché il suo timbro baritonale ha colori tendenti al bruno, differenti da quelli di Alaimo, sia perché pure lui è un istrione nato che non manca di riscuotere applausi a scena aperta già dalla romanza ‘Bella siccome un angelo’ e di imporsi nei brani di insieme dei tre finali d’atto con un’intonazione sempre a fuoco e una linea di canto ricca di sottigliezze in ogni registro.

La Norina di Maria Grazia Schiavo è un altro personaggio a tutto tondo, dotato di buona tecnica e gusto nel ricreare una parte assai complessa, delineando con intelligenza e spessore la figura della ragazza capricciosa e intelligente, affettuosa e temeraria. Il suo temperamento di soprano lirico, in grado all’occorrenza di sfoggiare un virtuosismo di stampo belcantistico, emerge non solo nella cavatina ‘Quel guardo il cavaliere’ ma anche nella capacità di tener testa ai differenti partner nei duetti disseminati nel corso dell’opera e culminanti in quel ‘Tornami a dir che m’ami’ a tu per tu con Ernesto. Il quale Ernesto è impersonato da Antonino Siragusa, specialista in questo repertorio tenorile, autore di una prova appassionata e gagliarda. Se in apertura di secondo atto l’aria ‘Povero Ernesto’, introdotta dallo splendido assolo di tromba, mette a nudo qualche titubanza nei territori dell’acuto, il resto della recita è improntato a un pieno controllo dei mezzi vocali, raggiungendo in molti punti risultati trascinanti grazie a pulizia e sincerità nell’emissione.

Ovazioni ripetute al termine dello spettacolo da parte di un pubblico assai attento e concentrato, nonostante un certo numero di buchi in platea e tra i palchi.


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