L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ritrovare il dialogo

di Roberta Pedrotti

La polemica estiva sul trucco teatrale forse passerà come tanti argomenti ciclicamente alla moda fra i social media. Tuttavia non bisogna trascurare il problema che pone quando, sollevando il pretestuoso spauracchio della "censura politicamente corretta", non si leggono né ascoltano più ragioni, ma solo slogan granitici.

Esperimento sociale? È una scusa molto in voga sul web, o almeno lo è stata: scoppia il caso e la risposta è che si voleva fare un “esperimento sociale”. Io invece lo dico chiaramente: non volevo sperimentare un bel nulla. In nove anni di vita dell'Ape musicale ci siamo sempre tenuti lontani dalle facili polemiche, dagli argomenti acchiappaclick, pur senza disdegnare qualche editoriale sulle regie o su altri temi oggetto di discussione. Così abbiamo pensato anche questa volta: quando Luca Fialdini mi ha proposto di parlare del razzismo nell'opera la nostra conversazione si è subito indirizzata alla cautela, alla pacatezza, alla sobrietà del discorso. Invece di soffiare sul fuoco, insomma, volevamo smorzare i toni, discutere, sì, ma senza clamore. La reazione sui canali social, seppur in parte prevedibile, mi ha molto colpita e mi si perdonerà, spero, se ora concludo con un'ultima divagazione rispetto alla nostra prassi di rigore.

Certo la polemica areniana che ha sollecitato la pubblicazione concomitante non ha facilitato le cose, ma quello che ho sperimentato è andato oltre la mia immaginazione. Anche perché in più di cento commenti pochissimi erano veramente nel merito, facevano riferimento agli argomenti specifici trattati o correlati (il ritiro di un soprano da una produzione e le relative motivazioni; la correlazione fra trucco teatrale e blackface comedy, l'interpretazione di espressioni razziste in alcuni libretti d'opera). Il resto era costituito da invettive furiose e generiche, alcune tali da costringere a nascondere o moderare i commenti.

Una prima considerazione è che, specie su certi argomenti, la pratica di commentare senza leggere – e quindi senza riflettere o mettere in discussione un pensiero, ma solo urlando ciò che si era deciso a priori di urlare – sia diffusa in maniera imbarazzante. Un'altra è l'effetto quasi pavloviano che si è innescato intorno ai temi cosiddetti del “politically correct” e della “cancel culture”, agitati come imprecisato spauracchi alla pari di molte teorie complottiste.

E se si provasse a ragionare con un po' di calma? Intanto partiamo dal presupposto che ogni eccesso andrebbe guardato con sospetto e che ogni posizione non è detto che sia da rigettare in toto pur presentando delle manifestazioni anche discutibili o esagerate. Di per sé, “politically correct” non vorrebbe dire cercare di esprimersi nella maniera il più possibile rispettosa di tutti? E rispettare tutti non è un bel principio? Poi è ovvio che intervenga il buonsenso ricordandoci che nel giusto contesto, sia possibile anche la battuta “scorretta”: sta all'intelligenza e alla sensibilità personale capire cosa sia opportuno, quando e con chi. Nel tempo anche la percezione di cosa sia appropriato e cosa meno, la portata offensiva o innocua di una parola o di un atteggiamento possono cambiare e quando qualcosa cambia, si sa, può farlo anche con forza, rivendicazioni, perfino eccessi o errori, che però non dovrebbero intaccare la bontà del principio. Il principio è non offendere e non discriminare, al di là di eventuali eccessi di zelo, che sicuramente non mancano, perfino con punte di fanatismo.

Tuttavia, non sono gli eccessi di zelo a preoccupare, anche perché tutto sommato marginali, episodici, comunque destinati a non lasciare troppe tracce rispetto a movimenti più ampi. Quel che inquieta è l'esasperazione, talora perfino la mistificazione dell'eccesso marginale, su cui vengono montati casi mediatici (non di rado vere e proprie bufale o fake news) che aizzino l'orwelliano “minuto d'odio” contro il mostro politicamente corretto. Ogniqualvolta si tenti di affrontare il tema della concordanza di genere per professioni, titoli e cariche, per esempio, tutto affonda nel pantano delle battute sul “geometro” e il “pediatro”, ormai freddure meno fresche e spiritose del caro vecchio idraulico “che non capisce un tubo”. Forse qualcuno ricorderà la storia del “bacio non consensuale” del principe azzurro a Biancaneve, vicenda che arrivava a figurare i vertici della Disney trascinati al tribunale dell'Aia, le copie del film d'animazione e dei libri di fiabe al rogo e sostituite da copie conformi a nuove norme. E, invece, era solo il risibile articoletto su un blog noto forse solo ai compagni di scuola e ai vicini di casa dell'autrice, ma abilmente rilanciato ed enfatizzato da alcuni tabloid scandalistici, arricchito di dettagli, gettato in pasto all'indignazione web.

Et voilà, lo scandalo è servito. In un ambito più vicino a noi, si potrebbe ricordare l'affaire della Carmen fiorentina in cui la protagonista, nel finale, spara a Don José, che muore cantando la sua ultima frase. Spettacolo discutibile? Pretestuoso? A detta di chi l'ha visto, sì. In ogni caso una fra le mille Carmen che si danno ogni anno nel mondo con finale canonico. Eppure, nell'immaginario dell'indignazione social, oggi “si cambia il finale di Carmen per il politicamente corretto”. Sommessamente potremmo ricordare che non è la prima volta che succede che in una produzione si diverge in modo più o meno significativo dalla tradizione e dal libretto, tuttavia l'opera è sempre lì e prevale il detto aristotelico “non si possono disfare le trame tradizionali” (lo Stagirita intendeva che non si può evitare che Medea uccida i figli o che Edipo sposi la madre, ma lascia la porta aperta su come questi eventi fondamentali nel mito vengano poi esposti).

Sta di fatto che la fantomatica “dittatura del politicamente corretto”, se esistesse, ci impedirebbe di metterla in discussione, censurerebbe un dissenso che invece sentiamo urlare ogni giorno, così come assistiamo ancora nel mondo a tanti, troppi pregiudizi e disparità. Semmai, pare che l'idea sia creata (o comunque gradita) da chi si oppone al principio virtuoso del rispetto: chi crede che non debbano sussistere offese e discriminazioni, non baderebbe troppo all'eccesso di zelo; chi ha la coscienza meno pulita – o qualche cattiva abitudine pregressa – si sente rassicurato nel veder additato come una sinistra imposizione l'invito al rispetto secondo nuove istanze, difendendo così il proprio diritto a non cambiare, a non mettersi in discussione, a coltivare magari qualche pregiudizio. Una volta creato il mostro, è facile che anche la persona in buona fede possa pensare che si stia esagerando e, stordita dalla bolla di sapone esageratamente gonfia e lucente, diffidi delle battaglie anche più nobili. Lo spauracchio del politicamente corretto danneggia in primo luogo proprio la lotta per uguaglianza, diritti e dignità, paralizza il dialogo di fronte a nemici invisibili e inesistenti.

Insomma, sarebbe stato interessante discutere sulla storia e il significato di costumi, maschere, trucco e parrucco, sugli attributi fisici di determinati personaggi e sull'opportunità, necessità e modalità della loro rappresentazione. Sarebbe stato interessante riflettere sulla percezione di determinati usi teatrali, sulla loro evoluzione, sull'iconografia dello spettacolo. Perché no, senza offendere e con rispetto per le scelte personali, dibattere delle ragioni rese note da un o un'artista per una sua (personale e legittima) rinuncia o richiesta.

Già. Sarebbe stato interessante. Invece abbiamo sperimentato il clima avvelenato di una rete sociale in cui si sbattono slogan uno contro l'altro, ma anche le persone di buona volontà devono sudare per gestire una discussione articolata fra post e commenti. Però, almeno, ci si potrebbe provare. Almeno a leggere prima di commentare, a pensare prima di insultare, a verificare prima di ripetere, anche a dispetto di canali di informazione ufficiali sempre più dediti a catalizzare click e reazioni.

Potremmo ripartire dall'opera, dove la scelta di un interprete vede l'aderenza fisica al personaggio in subordine alle caratteristiche vocali e musicali e dunque porta la questione della credibilità, del costume, del trucco in maggior evidenza rispetto al teatro di parola, alla tv o al cinema. Un regista, un produttore in questi casi può scegliere l'aspetto più adatto alla sua idea, e se i tempi si protraggono e l'aspetto muta dovrà regolarsi di conseguenza (cambiando l'attore, truccandolo o ricorrendo a effetti speciali, cambiando la sceneggiatura); un direttore artistico potrà prendere in considerazione la corrispondenza estetica con il personaggio, ma non potrà (o almeno non dovrebbe) scritturare un contralto per Violetta, un soprano leggero per Turandot, un lirico spinto per Zerbinetta. E, dunque, dovremo ragionare sulla credibilità scenica in termini diversi.

L'opera è anche un modello meraviglioso di come una forma d'arte abbia saputo vivere per oltre quattro secoli integrando un sistema complesso e variegato di professionisti e pubblico, rispecchiando (e criticando) il tempo in cui nasceva, ma mostrandosi sempre capace di parlare e descrivere il presente in qui viene portata in scena. È rimasta sé stessa mutando stili, codici, estetica, modalità di rappresentazione, ha perpetuato la sua tradizione aggiornandosi continuamente. Non per modo di dire: anche in allestimenti definiti classici, il carico del trucco, l'uso delle parrucche, la foggia dei costumi non restano gli stessi negli anni, basta un minimo di attenzione per rendersene conto. E, dunque, consapevoli della storia, pensiamo davvero che nei prossimi decenni i gesti resteranno gli stessi? Che i ceroni, i fard, i toupet non cambieranno nemmeno un po'? Lo hanno sempre fatto, per adattarsi alle nuove illuminazioni, o a gusti, sensibilità diverse.

Se non fosse un termine a rischio abuso e usura, l'opera è sempre stato anche un genere inclusivo. Non innocente, perché rispecchiando i propri tempi ne ha anche assorbito quello che a posteriori è diventato disdicevole (Die Zauberflöte nasce con i migliori intenti ideali, ma il testo è infarcito di motti per noi oggi razzisti e misogini, benché senza Pamina difficilmente Tamino supererebbe l'ultima prova e Papageno proclami che, se esistono uccelli neri, non ci sarà strano vedere anche uomini neri). Tuttavia, se c'è un ambito in cui donne di umili origini potevano trovare una rivalsa (e sepoltura in terra consacrata) questo era il teatro musicale. Se c'è un ambito in cui donne di origini africane hanno potuto farsi valere, questa è stata l'opera: Vittoria Tesi, diva fiorentina del XVIII secolo, partner favorita di Farinelli, era figlia di un lacché moro e aveva tratti marcatamente centrafricani; Marian Anderson fu confinata come contralto alla parte di Ulrica in Un ballo in maschera, ma nell'America segregazionista calcare il palcoscenico del Met era comunque un traguardo sensazionale. Un esempio emblematico di riscatti e cambi di prospettiva viene poi dai castrati: con il tempo è maturata l'idea della barbarie della mutilazione e delle terribili conseguenze per la salute fisica e mentale, ma nell'età dell'oro di queste voci, per chi arrivava al successo, essere un castrato significava sfuggire a una vita miserabile per accedere a un'educazione di prim'ordine e sedere alla mensa dei re. Le cose cambiano, sì, e cambia la nostra percezione. Cent'anni fa, per esempio, la questione era inversa e poteva capitare che un tenore cantasse l'Otello di Rossini rifiutando il trucco da Moro perché trovava degradante apparire più scuro. Forse non dovremmo aver paura di osservare questa storia e questi mutamenti e partecipare mettendoci in discussione, discutendo senza agitare spauracchi minacciosi.

Se qualcuno avrà avuto la pazienza di arrivare fin qui, forse si chiederà, alla fine, cosa penso del casus belli. Francamente, nulla di speciale. Penso che Angel Blue abbia tutto il diritto di non cantare se non si sente a suo agio, né posso discutere le sue sensazioni e motivazioni personali. Penso, tuttavia, che sul piano storico la sua motivazione sia fallace e che la storia del trucco teatrale nell'opera non abbia nulla a che vedere con la blackface comedy statunitense, ma sia semplicemente un elemento che di per sé non ha nulla di discriminatorio. Rispetto chi lo percepisce in modo diverso, trovo sempre inutili e pretestuose le polemiche. Mi sono piaciute le parole di Grace Bumbry. Nulla mi toglierà dalla testa che rispettare il prossimo sia sempre una buona cosa, che nel passato ci sono cose che apparivano innocue e invece ora vediamo come imbarazzanti e quindi vadano contestualizzate e comprese, che in futuro la nostra sensibilità cambierà ancora e spero in modo sempre più aperto nella parità di diritti e dignità. Continuo a pensare che chi calca il palcoscenico possa vestirsi, truccarsi, mascherarsi in ogni modo se non ci sono intenzioni offensive (al più, satiriche ma cum grano salis: come ricordava qualche tempo fa Ruth Dureghello, di tutto si può scherzare purché con intelligenza e consapevolezza) e se lo spettacolo ha senso e coerenza. Senso, buon senso, coerenza. Ripartiamo da lì: non mancano, ma spesso fa comodo credere che non ci siano,


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