L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Reality al teatro Elfo Puccini di Milano

La realtà è un punto di vista

 di Pietro Gandetto

Essere anonimi e unici. Speciali e banali. Avere il quotidiano come orizzonte. Come Janina Turek, donna polacca che per oltre cinquant’anni ha annotato minuziosamente ‘i dati’ della sua vita. 748 quaderni trovati alla sua morte nel 2000 dalla figlia ignara. Cosa spinge ad annotare la propria realtà?  Il raffinato spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini in scena all'Elfo Puccini di Milano prova a rispondere a questa domanda e a raccontare cosa si cela dietro l’apparente “normalità” di ognuno di noi.

Milano, 12 maggio 2016 –  Per capire dove sta andando il teatro d’oggi e qual è il linguaggio teatrale che meglio rappresenta la sensibilità di questi anni, è forse utile immergersi nella pentalogia del progetto curato da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, all’interno della quale Reality è senza dubbio uno degli spettacoli più interessanti e più riusciti.

Il soggetto, ispirato al saggio documentario di Mariusz Szczygiel, riprende la storia di Janina Turek, una casalinga di Cracovia che per oltre mezzo secolo ha annotato e archiviato in 748 quaderni tutto ciò che faceva, suddividendo gli eventi da lei selezionati in circa 30 categorie (1922 appuntamenti fissati, 5817 regali fatti, 70.042 programmi visti in tv, e così via con le visite inaspettate, le colazioni, i cibi esotici consumati, gli spettacoli teatrali visti, le telefonate ricevute e le persone incontrate casualmente per strada). Una catalogazione ossessivo-compulsiva declinata nei quaderni con precisione altrettanto maniacale, senza cancellazioni, con la stessa penna di color blu scuro e annotando l'ordine cronologico di ogni singolo evento. La descrizione oggettiva, senza emozioni, senza commenti, e senza interpretazioni di una realtà selezionata come uno scanner, che si ferma ai dati fattuali, appunto, ai fatti storici.

Ma come si fa a trasformare in teatro, e quindi, in arte, una storia di per sé molto semplice e, se vogliamo, quasi banale?  La risposta risiede nello stile recitativo e nella straordinaria capacità espressiva dei due protagonisti.  Mentre il pubblico entra in sala, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini sono seduti su un lato del palcoscenico. Vicino a loro un tavolo, una poltrona e qualche oggetto. Nient’altro. Si abbassano le luci, si guardano: “Andiamo?” Sono questi primi istanti a far nascere un “discorso” che coinvolge il pubblico, nel quale gli attori sembrano non recitare, ma dialogare informalmente con gli spettatori. Tagliarini e Deflorian intepretano loro stessi, mettendo in scena due teatranti intenti nella trasposizione scenica di un racconto biografico originalissimo.

Su tutte, emblematica la scena iniziale, in cui i due attori cercano di “interpretare” la morte improvvisa di Janina, colpita da infarto per strada, e discutono con il pubblico mentre la interpretano, giungendo alla conclusione che ogni morte recitata è un'insopportabile finzione. Da questa presa d’atto dei limiti che un certo lessico teatro sconta, emerge un potentissimo linguaggio, indiretto, essenziale e pulito proprio come i diari di Janina.

Allora inizia quel sottile gioco di doppi sensi, freddure ironiche, quell’immaginare, dialogando con il pubblico, quello che probabilmente Janina Turek provò e pensò, prima di annotare gli eventi nei suoi quaderni da quando aveva circa trent'anni, fino alla sera prima della sua morte, nel 2000.

Le ipotesi interpretative di Deflorian e Tagliarini vengono raccontate ed esaltate sulla scena con disincantata lucidità e picchi di ironia, grazie a una recitazione scarna, essenziale, minimalista - che calza a pennello con la stessa essenzialità chiururgica con cui Janina Turek annotava i propri eventi – ma che a contrario ne fa emerge con straordinaria efficacia, il coté emozionale, gelosamente celato dalla casalinga polacca nei suoi registri.

Si torna a casa incuriositi e un po’ scossi,  inclini a pensare che la realtà, probabilmente, non è nulla di definito o di convenzionale, ma un coacervo di credenze, di atti di fede verso quello che ordinariamente e comunemente si crede sia la vita di ognuno di noi. Ma senza alcuna garanzia di certezza, se non quella di un’autenticità soggettiva e, forse, di una certa solitudine esistenziale.

 


 

 

 
 
 

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