L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

vladimir jurowski

Dal micro al macro-cosmo

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia torna Vladimir Jurowski con un programma tutto improntato sulle avanguardie della Secessione Viennese. A lui dobbiamo la prima direzione assoluta, all’Accademia, del capolavoro di Alexander (von) Zemlinsky, la Sinfonietta op. 23. Segue la monumentale Sinfonia n. 1 in re maggiore “Il Titano” di Gustav Mahler, nella sua versione con Blumine. Jurowski scolpisce perfettamente i due brani, in ottimale sinergia con la maggior orchestra romana.

ROMA, 31 marzo 2017 – Sulla cresta dell’onda di una brillante carriera, il moscovita Vladimir Jurowski porta all’Accademia di Santa Cecilia un affascinante programma en pendant con l’importante convegno sulla musica della secessione viennese (Vienna 1884 / 1934). Due sole opere in programma, autentici capolavori indiscussi: la Sinfonietta di Zemlinsky e la “Titano” di Mahler.

Per la prima volta eseguita in Accademia, la Sinfonietta è un perfetto esempio di quella “Entartete Musik” (musica degenerata) tanto osteggiata dal partito nazionalsocialista nei tristi anni ’30 che precedettero lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Con dovizia di particolari e felice penna ripercorriamo il clima culturale di quegli anni nelle parole del programma di sala a firma di C. M. Cella; il clima in cui Zemlinsky, in un impeto, praticamente di getto, compose la Sinfonietta, che rispondeva alle nuove esigenze musicali che si adattavano al mutare dei tempi: «ovunque in Europa le forme si sono esercitate, anche per sollecitazione di nuovi mezzi e nuove destinazioni (teatro da camera, radio, cinema), su dimensioni ridotte. Una pagina per orchestra anche per lui [Zemlinsky] non può che essere in prudente diminutio» (Cella). Jurowski dà una vivida direzione del cangiante materiale zemlinskiano, sapendo dosare l’irreversibile reazione chimica di sensi malinconici, ironici, sereni, in un impasto coloristico di sensualissimo appeal, che danno vita alla Sinfonietta. Fin dal Sehr lebhaft. Presto (I) Jurowski è accorto nel cavare dal magma ritmico-timbrico ogni cellula, ben evidenziandola, dagli squarci sensuali, promanati dai legni, all’accenno di un valzer, alla conclusione ruzzante. Jurowski è eccezionale nel tenere unite le melanconiche fila del II movimento, Ballade, mantenendo un’agogica incredibilmente emozionante pur nel dilatarsi dei tempi. Un’ironia šostakovičana pervade il Rondò, che non si esime dal navigare verso regioni armoniche ai limiti dei confini atonali (sobriamente scavallati, talvolta, da Zemlinsky, sempre parcamente mossosi fra la sua cultura brahmsiana e la vocazione wagneriano/mahleriana, com’ebbe a affermare P. Petazzi). L’orchestra suona straordinariamente e con Jurowski si merita gli applausi.

Zemlinsky non nascose mai i suoi fervori mahleriani: «per le opere di Mahler nutro la più totale, incondizionata, illimitata ammirazione». Con un balzo indietro (la Sinfonietta è del 1935), e con passaggio dal micro al macro-cosmo dell’intera vita stessa, veniamo immersi nella tripudiante Prima sinfonia, “Il Titano”, che Mahler in persona battezzò nel 1889 a Budapest. Stupendo il pedale sul la, l’intervento retroscenico degli ottoni, il tema del risveglio della natura che aprono il I movimento: siamo nell’ammirazione più totale di Mahler per il celeberrimo incipit del wagneriano Das Rheingold. L’orchestra suona divinamente: Jurowski sembra quasi giocare teneramente col tema principale, dolce, placido; gestisce ottimamente le figurazioni dello sviluppo, ricche dei beethoveniani, pastorali guizzi dei legni, chiudendo in gran potenza il fulmineo primo finale. Proprio come l’aveva pensato Mahler, Blumine torna in seconda posizione della sinfonia: la direzione di Jurowski si fa qui tersa, cristallina, permettendo alle delicatezze dei passaggi di emergere. Le ampie frasi respirano; il finale, con gli sfumanti pizzicati d’arpa, è magnifico. Pennellate nette, quasi marziali per il III movimento: gli accenti vengono dilatati leggermente, un dilatamento che si restringe verso la fine, pur mantenendo la sua nettezza. Jurowski riesce a far esplodere l’orchestra nel finale III, con precisione e pulizia. Qualche secondo di riposo per gli orchestrali, che si concedono di accordare gli strumenti, e Jurowski dà il via all’ingresso ironicissimo dei contrabbassi su una scherzosa marcia funebre sul motivo a noi noto come Fra Martino campanaro. Jurowski ammanta bene di ironia questa mortifera marcetta, che tiene in piedi con agogica stretta, quasi inesorabile, per conferire smalto al senso del pezzo (Mahler si era ispirato a una diffusa incisione per bambini raffigurante il cadavere di un cacciatore comicamente portato in processione dai rattristati animali della foresta). Come apre stupendamente ai colorati timbri che squarciano verso il sereno! (Chissà, forse l’anima del cacciatore che s’è meritata il paradiso?) Ecco poi tornare la parodica marcetta. Con geniale coup de théâtre Mahler introduce nuovamente accenti eroici: Jurowski cavalca questa insita drammaticità della “Titano” e si lascia andare generando grande senso di epicità e potenza, titanicamente portando l’orchestra a grande volume pur mantenendo ben distinti tutti i suoni precipui delle diverse compagini nei loro animosi sussulti. L’agogica è palpitante: ruba quando può, ma restituisce sempre. Semplicemente straordinario il momento della ripresa del tema della natura che nasce; dal magma tematico, poi, Jurowski solleva l’orchestra nel titanico finale. Gli applausi sono scroscianti: il russo ci ha regalato un Mahler in forma smagliante.

foto Musacchio e Ianniello


 

 

 
 
 

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