Dall'ancia alla bacchetta
La Form conclude la sua stagione ospitando il primo oboe dei Berliner Philharmoniker per un bel concerto salutato da vivo successo. Si pongono così in evidenza ancor maggiore i temi che hanno condotto l'orchestra a proclamare lo stato di agitazione.
FANO, 11 maggio 2025 - Salutando il pubblico bolognese il 2 maggio, Riccardo Muti ha ricordato che, mentre lui avrebbe dovuto raggiungere la vicina Ravenna, i Berliner Philharmoniker avrebbero dovuto far ritorno nella capitale tedesca. Non tutti, però: almeno uno si è fermato in Italia e ha fatto tappa nelle Marche. Il primo oboe Albrecht Mayer è stato, in ordine di tempo, l'ultimo ospite d'onore della stagione della Filarmonica Marchigiana.
Si chiude così un cartellone che, grazie alla direzione artistica di Francesco Di Rosa, non ha solo incrementato le tournée, ma ha visto anche sfilare una lussuosa serie di solisti, da Enzo Turriziani, Fabrizio Meloni e Anna Tifu a Lonquich e Piovano (questi ultimi, come Mayer, anche in veste di direttori).
Sembra quasi superfluo sottolineare che, dopo averlo ascoltato con la sua orchestra, ritrovare Mayer come solista è una gratissima opportunità per gustare non tanto le virtù tecniche, quanto la musicalità, il gusto, la sensibilità dell'artista. E anche quel tipo di comunicativa che solo i grandi si possono permettere nel rivolgersi (in buon italiano) agli spettatori e ai colleghi professori d'orchestra, perfino nello scendere in platea per il secondo bis, tutto suo dopo un primo fuori programma sul palco. La classe si vede anche in queste scelte, infatti, e se da un lato Mayer si avvicina il più possibile al pubblico per offrire un saggio tecnico di respirazione circolare, dall'altro sceglie pure di coinvolgere e valorizzare le prime parti degli archi (Alessandro Cervo, Simone Grizi, Jone Diamantini, Alessandro Culiani e Luca Collazzoni) per la sinfonia della cantata Ich hatte viel Bekümmernis di Bach. Sono momenti di condivisione in cui non c'è divo, ci sono solo musicisti e la gioia di suonare insieme qualcosa di bello.
In questo clima propizio ha preso vita un impaginato che, nella sua scaletta ufficiale, verteva su Mozart e Beethoven. Per quel che riguarda il Salisburghese, però, dopo la Sinfonia di Così fan tutte, quel che si ascolta è soprattutto un omaggio, quello che Mayer definisce un “profondo inchino”, vale a dire la composizione (commissionata dall'oboista stesso e sviluppata per secondo e terzo movimento su temi di suo pugno) da parte di Gotthard Odermatt di una partitura completa a partire dall'abbozzo di secondo concerto per oboe e orchestra che Mozart intraprese e abbandonò probabilmente all'inizio del 1783. Il calco stilistico è palese e sebbene sia evidente non si tratti di un'opera compiuta del genio, l'Adagio non troppo centrale ha un notturno lirismo non privo di fascino e credibilità mozartiana. Il trasporto con cui Mayer si è dedicato all'idea di dar vita postuma a quelle poche pagine già appaga per come si trasmette nell'affabile nobiltà del porgere, in un senso di far musica, di cantare fluido, con sincerità e intelligenza che va oltre la mera esposizione di note esatte e ben emesse.
Alle prese con l'Eroica di Beethoven, Mayer conferma la sua statura di musicista e l'empatia non comune con i colleghi. Se si cercherà la souplesse del direttore purosangue, la profondità di una lettura sfaccettata e indimenticabile, magari non le si troveranno, ma l'esperienza del solista sul podio si trasforma in condivisione, comunicazione ed energia, in un equilibro e una qualità del suono che portano senza meno a godere del capolavoro beethoveniano. Il successo finale, d'altra parte, non è di circostanza o dettato dalla fama e dal richiamo di programma e solista. Il pubblico si capisce subito essere attento, consapevole, diverso da quello un po' più chiassoso e incline all'applauso automatico ad ogni pausa. Oltre a quegli spettatori occasionali e neofiti che è sempre cosa buona e giusta portare a teatro (affinché magari diventino poi più scafati frequentatori) si vede qui come la qualità attragga uno zoccolo duro ben presente di musicofili attenti.
Ora, in chiusura di una stagione sinfonica serrata nell'arco di pochi mesi, alcune osservazioni si impongono per quella che è una delle principali realtà culturali della Regione, con tutti gli onori e gli oneri della qualità, tanto più che in questi stessi giorni le sigle sindacali dell'orchestra hanno proclamato lo stato d'agitazione. Premono senz'altro questioni amministrative a cui le istituzioni dovrebbero rispondere, come i soli otto mesi di contratto annuale più volte stigmatizzati come iniquo svantaggio rispetto ad altre ICO del territorio nazionale. Non meno pressante e già ricordato è il problema dell'assenza di una sede operativa che sarebbe naturale individuarla nel capoluogo, sia da un punto di vista simbolico, sia logistico, sia strutturale (il Teatro delle Muse dispone di sale prove, camerini, spazi e servizi non paragonabili con altri, pur bellissimi teatri sparsi nell'entroterra). Nobilissimo e fondamentale il portare i concerti nelle splendide sale sparse nel territorio regionale, ma un'orchestra ha bisogno di una “prima casa”. A questi temi si lega strettamente la questione artistica, sulla quale è imprescindibile investire in una regione che ha nel turismo culturale una delle sue principali risorse (basti pensare all'attrattiva internazionale del Rossini Opera Festival): un'orchestra come questa con una sede stabile e una maggiore continuità lavorativa può meglio consolidare e far crescere il proprio valore. Negli ultimi anni si è indubbiamente fatto molto, alla stagione sinfonica si affiancano – oltre alle collaborazioni operistiche – molte altre iniziative collaterali, a partire dai concerti per scuole e famiglie, tuttavia questo dovrebbe essere non una meta su cui adagiarsi, ma un trampolino per andare oltre. Le Marche, regione di Rossini, Pergolesi e Spontini, devono investire nella loro orchestra e riconoscerne il ruolo. Sarebbe, poi, opportuno che, oltre all'incontro proficuo e prestigioso con grandi solisti, si puntasse sull'assiduità con grandi direttori, su una figura stabile che la accompagni in un tratto di percorso. Non dimentichiamo che se negli ultimi anni la Form ha avuto un importante salto di qualità è stato anche in concomitanza con una direzione principale come quella di Alessandro Bonato: già allora abbiamo avuto esperienza di come un bel progetto artistico sia stato tarpato da ingranaggi dirigenziali e amministrativi non esattamente ben oliati e propizi. Non si compia lo stesso errore oggi.
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