Il rito del Maestro e dell'Orchestra
La stagione di Bologna Festival si apre con la replica straordinaria del Concerto per l'Europa dei Berliner Philharmoniker diretti da Riccardo Muti (l'altra data era il 1° maggio, anniversario della fondazione dell'orchestra, a Bari): una serata torrida e un evento con tutti i crismi dell'eccezionalità.
BOLOGNA, 2 maggio 2025 - Muti e i Berliner Philharmoniker. A Bologna, il primo non è certo una novità (l'ultima volta, sempre al Pala Dozza, fu nel dicembre 2022 con il Requiem di Verdi), mentre i secondi rappresentano un evento più unico che raro. L'abbinamento, oltretutto, non è troppo frequente (anzi, oltre che con la Cherubini, Muti si è visto in tournée per lo più con la Chicago Symphony e i Wiener Philharmoniker) e abbiamo, senz'ombra di dubbio, tutti i crismi dell'evento da officiare in pompa magna. Trattandosi, poi, anche di un evento di beneficenza, la scelta di ospitare il concerto nella vastità del palazzetto dello sport ha tutte le ragioni, consacrate da un'affluenza più vicina alle quattromila che alle tremila persone, fra cui, oltre ai soliti noti addetti ai lavori habitué delle platee bolognesi, si riconoscono non pochi musicisti, direttori compresi, anche di una certa fama.
Inutile negare che l'accoglienza di un numero così vasto di spettatori abbia come rovescio della medaglia non solo un'acustica non proprio amica (ma gli interventi d'amplificazione e la camera acustica vengono in aiuto con giusta discrezione) ma soprattutto un clima rovente – e non si parla solo di metaforica temperatura di passione artistica. La giornata davvero calda ha trasformato, purtroppo, il Pala Dozza in un forno e forse si è sottovalutato il problema nella gestione degli impianti di climatizzazione: fatto sta che si sono contati diversi svenimenti, malori, interventi di squadre di soccorso (fra cui uno tale da richiamare l'attenzione di Muti prima di attaccare il terzo movimento della Seconda di Brahms).
Nell'intervallo i cinque euro per una bottiglietta di Coca Cola nel bar del palazzetto sembrano un indispensabile investimento in liquidi, zuccheri e caffeina per resistere al clima e godersi la seconda parte del concerto, che si presenta come una doppia ostensione, dell'orchestra e del direttore, fra repertorio operistico italiano e grande sinfonismo tedesco.
Muti è una sorta di monumento vivente a sé stesso. Dopo i primi anni in cui il suo giovane talento irruppe sulla scena a partire da Firenze, dopo il tempo della signorìa scaligera in cui sondò – oltre al Verdi e alla Tetralogia wagneriana – il Settecento napoletano e l'opera classica fra Gluck, Spontini e Cherubini con qualche puntata rossiniana, dopo la fase post scaligera segnata dalla fondazione dell'orchestra giovanile Cherubini e da nuove, meditate acquisizioni di repertorio, oggi Muti lambisce uno stato di mito cristallizzato, consacrato e ritualizzato (anche nell'abituale orazione al pubblico). E, tuttavia, non rinuncia a far sentire la sua autorità, tenendo sempre la briglia stretta, con pulso fermo di fronte a un'orchestra dalla spiccata personalità, dal suono peculiare e inconfondibile.
La prima parte dedicata alle esperienze francesi di operisti italiani (ouverture di Guillaume Tell, ballabili da Les vêpres siciliennes) si muove nello storico repertorio d'elezione del maestro, mentre la seconda sinfonia di Brahms, che pure Muti affronta spesso, il vantaggio della primogeniture potrebbe incoronare i Berliner, ma non è così: la bacchetta ci dice inesorabilmente che quello è il Brahms prima di tutto “di Muti”, non meno di quanto lo erano Rossini e Verdi. Si muove alla guida di una macchina strepitosa, si sa e anche nella venerazione non ci si sorprende per tutto quel dipanare di singolarità eccellenti, per esempio, in Rossini, nel lamento pungente del violoncello e nelle sonorità pastorali non edulcorate del Ranz des vaches. Muti pare ingranare marce basse per non lasciar correre il motore, ma tenerne in pugno la potenza con passo incalzante, di teatrale impellenza e prepotente fisicità. C'è un indubbio piacere edonistico, là dove spesso questo repertorio viene trascurato nel suo spessore strumentale, nell'ascoltare Rossini da una così grande orchestra, mentre paradossalmente non è l'atteso preziosismo degli interventi solistici a costituire il cardine delle Quattro stagioni verdiane, semmai la ricerca di contrasti anche febbrili e di una sonorità quasi tangibile.
Nonostante l'atmosfera tropicale, la qualità dei professori è del livello eccelso che il nome Berliner Philharmoniker promette e risulta quasi miracolosa quando Muti in Brahms punta su tempi più dilatati, senza lasciarsi andare, come forse verrebbe istintivo, alla lieve e ininterrotta poesia melodica che pervade la Seconda Sinfonia. L'orchestra non conferma solo arcate e fiati interminabili, ma anche un controllo del suono in tutta la dinamica, tanto denso, nitido e presente nel piano – dove è un piacere intendere come ciascuno sgrani infallibile le proprie note – quanto possente nel forte senza cadere nella facile trappola della grevità. Ancor più impressiona di fronte al controllo spasmodico, battuta per battuta, di un Muti che pare non voler mai allentare le briglie del suo magnifico destriero (non senza assumersi qualche rischio, perfino: si sa che più si stringe più si rischia di farlo scalpitare e sfuggire). Ne sortisce un Brahms che tende a una sostanza corposa, ampia e solenne, a un'uniformità che attraversa i quattro movimenti pur giovandosi dell'impagabile spettro dinamico dei Berliner, di un velluto setoso innato anche là dove son trattenuti dall'abbandonarsi al canto. Danno forma a una sorta di cristallizzazione rituale, all'ostensione dell'autorità del maestro e del suono dell'orchestra. Di fronte all'epifania sacra c'è spazio, però, anche per la speculazione sul mondo delle idee: il valore di un'orchestra come collettività e come insieme di individui, la qualità consacrata e l'umanità (anche fallibile, perché no), il rapporto con il direttore nei parametri di forza, autotorità, autorevolezza, complicità, il rapporto con l'opera fra possibili splendori e sondabili profondità.
L'alta cerimonia non può che concludersi fra le ovazioni, ma senza bis che ne alterino la forma prestabilita.
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