L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Händel all’italiana

 di Francesco Lora

Dopo lo sgambetto organizzativo al Festival Galuppi di Venezia, l’Alcina è ben a fuoco al Teatro Comunale di Ferrara: la direzione di Zarpellon e una compagnia di canto ben assortita restituiscono con inusitata naturalezza di lettura il capolavoro händeliano.

VENEZIA-FERRARA, 24-25 settembre 2016 – Spiazza e incresce ciò che è avvenuto il 24 settembre nella sala superiore della Scuola grande di S. Rocco a Venezia: il Festival Galuppi vi ha dato nientemeno che l’Alcina di Händel, in forma di concerto e con tagli minimi, scenograficamente pago dei circostanti teleri del Tintoretto; pubblico non numeroso ma nel quale si riconoscevano parecchi appassionati di ferro, giunti da tutta Italia; ebbene: terminato l’atto II, ai musicisti è stato dato il segnale di aver ecceduto i tempi concessi dall’organizzatore; dunque: esecuzione in fretta e furia della grande aria di bravura di Ruggiero, di un moncone del terzetto e del coro finale, poi tutti a casa, senza che si sia potuto cantare o ascoltare un buon terzo del titolo venduto. Pietosa immagine di un’istituzione meritoria. Chi recensisce rattoppa il fattaccio correndo, l’indomani, alla replica nel Teatro Comunale di Ferrara: dove prosegue il tagliacuci interpretativo e critico.

Concertatore è Roberto Zarpellon, alla testa dell’Orchestra da camera “Lorenzo Da Ponte” e coadiuvato dal coro Accademia dello Spirito Santo preparato da Francesco Pinamonti. Onore al personaggio e ai suoi collaboratori di fiducia: grazie a loro la scena ferrarese ha tenuto desta, negli ultimi anni, l’attenzione sul repertorio sei-settecentesco, con esecuzioni dell’Orfeo di Monteverdi [leggi la recensione] e di quello di Bertoni [leggi la recensione], nonché dell’Orlando e della Iuditha [leggi la recensione] di Vivaldi. Di apparizione in apparizione, audacia e tecnica si affinano; soprattutto, mostrano qualità essenziali ma rare sul mercato esecutivo globale: l’orchestra ha proprietà e incisività di fraseggio senza cedere alla calligrafia, e nell’impugnare strumenti originali conserva salute timbrica e corposa risonanza; le voci soliste, oltre che il coro, sono tutte di madrelingua italiana e vantano la prosodia preclusa ai divi internazionali delle scene estere; la direzione è tutta saggiamente improntata alla genuinità, alla franchezza e alla semplicità di soluzioni.

Spiace unicamente il malvezzo di cedere alle forbici; non tanto nei recitativi, già tenuti brevissimi dal compositore, ma nelle arie col da capo limitate alla sola prima sezione: ciò avviene isolatamente in un’aria dell’atto I, ma impazza poi nel III, dove una di fila all’altra le arie, nonché il terzetto, sono scorciati senza pudore. Quale ne sia il senso, è difficile ad ammettersi: i pochi minuti “guadagnati” non recano una fatica apprezzabilmente minore ai cantanti e risultano anzi pareggiati dal mantenimento delle danze (prime pagine, nella gerarchia, a dover piuttosto cadere, e soprattutto in sede concertistica); nel contempo, anche chi non conosca l’opera a menadito saprebbe indicare nei vistosi monconi, banalizzazione di struttura complessa, il luogo infelice degli sfoltimenti: in primo luogo nella struggente siciliana «Mi restano le lagrime», lamento di Alcina sconfitta, che proprio nella sezione centrale avrebbe il percorso armonico e retorico più originale e intoccabile.

La parte del titolo è sostenuta dal soprano Francesca Lombardi Mazzulli: canto solido nel registro centrale, con tendenza a irrigidirsi e stiracchiarsi nell’ascesa a quello acuto, e con emissione pervasa da fiotti d’aria; non si tratta di una virtuosa d’avanguardia; ma il versante espressivo è da ammirare per ricchezza di idee, tali da restituire il personaggio con la sua contraddittoria varietà di affetti, e tali da restituire la musica con dovizia di sfumature e contrasti. Sorprendente è, al suo fianco, il mezzosoprano Paola Gardina, che tiene la parte del primo uomo Ruggiero già concepita per il castrato Carestini: formidabile omogeneità timbrica nell’impervio trascorrere da un registro all’altro, agilità energica e granita, favolosa autorevolezza e fantasia d’accento nei panni virili, guerrieri e amorosi, musicalità che non teme variazioni e cadenze da gran virtuosa non solo delle corde vocali in sé, ma anche della giusta intonazione in orizzonti volutamente avventurosi.

Le poche ore trascorse dalla mezza recita di Venezia a quella intera di Ferrara giovano in particolare al soprano Sonia Tedla Chebreab come Morgana: la linea di canto, lievissima, traslucida e pungente, ha encomiabile esattezza strumentale, ma in laguna è veicolata dai soli toni attoriali di una sorta di allarmato sgomento infantile; in riva al Po, questo monotono patetismo multiuso si anima all’improvviso, e riconsegna al personaggio – mutevole nel carattere – anche i toni dell’impero e dell’ironia. In forma non ideale si ritrova invece il mezzosoprano Barbara di Castri come Bradamante: è a suo agio nell’esibire un registro grave senza termine, ma non nel mantenere continuità tra i registri stessi, o nell’articolare i passaggi d’agilità a voce spiegata. Giovane soprano in personaggio imberbe, Marta Radaelli è a sua volta un Oberto fresco ed entusiasta, timido nella prima apparenza ma non nella sferzante evoluzione.

L’italianità di scuola e anagrafe garantisce alti esiti anche tra le voci maschili, là dove d’abitudine si annidano specialisti della presunzione anziché del repertorio. Adorabile è l’Oronte di Alessio Tosi: nessun tenore d’oltralpe potrebbe competere con lui per immediatezza timbrica, sorridente cordialità, onestà nel dipanare a voce piena e senza allentamenti le scabrose quartine di semicrome in «È un folle, è un vile affetto». Impareggiabile, infine e al solito, il baritono Mauro Borgioni nella pur breve parte di Melisso: la sua è, in pari misura, arte del canto e della parola; ogni sillaba, nota e frase riceve peso, colore, direzione, ora ricercando la ragionevole verosimiglianza dell’eloquio, ora artefacendo con caleidoscopica sovreccitazione istrionica: il tutto con un compiacimento che unisce l’interprete conscio allo spettatore erudito, e che indica una scuola musicale e teatrale tanto ben coordinata da lasciare un gusto persistente di incredulità.

foto Marco Caselli Nirmal


 

 

 
 
 

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