L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Prigionieri e prigioni

 di Stefano Ceccarelli

Torna un’opera di Leoš Janáček al Teatro dell’Opera di Roma: Da una casa di morti, il suo ultimo capolavoro e testamento artistico. A dirigerlo è un giovane e talentuoso Dmitry Matvienko, mentre la regìa, una reinterpretazione in chiave contemporanea con un forte messaggio politico, è affidata a Krysztof Warlikowski. L’eccellente cast è tutto affidato a specialisti del repertorio.

ROMA, 25 maggio 2023 – È certamente curioso l’interesse che la direzione artistica del Costanzi sta indirizzando verso la produzione operistica di Leoš Janáček. Sia la lingua, che lo stesso linguaggio sperimentale non rendono certo Janáček congeniale alla platea romana, tendenzialmente tradizionalista. Non che ci sia nulla di male ad esserlo, si badi: è solo un dato di fatto. Eppure, dopo sparute apparizioni novecentesche, ecco due opere di Janáček a distanza di un anno: la Kát’a Kabanová dello scorso anno (leggi la recensione) e la presente Da una casa di morti. A parte una sacrosanta variatio che deve sempre vigere nei cartelloni dei vari teatri lirici, il senso della ripresa di Janáček sono convinto che risieda anche nella consonanza della sua musica con i tempi ansiogeni in cui viviamo, noi occidentali. Da una casa di morti, peraltro, è forse l’opera più ansiosa di Janáček.

La regìa di Krysztof Warlikowski, in co-produzione con la Royal Opera House Covent Garden di Londra, il Théâtre de La Monnaie di Bruxelles e l’Opéra National di Lyon, ha il pregio di essere una rilettura in chiave contemporanea di un’opera che si presta bene a questo tipo di operazione; inoltre, la coproduzione sorregge i costi di allestimento e permette una mise en scène dettagliata e curata. I campi di detenzione in Siberia, teatro dell’esperienza di Dostoevskij (dal cui omonimo romanzo l’opera è tratta), diventano un’anonima prigione statunitense – in linea con il filone dei prison drama americani – dove si avvicendano storie diverse, mantenendo quel senso di sovrapposizione paratattica di vite ed esperienze che è un po’ l’idea drammaturgica centrale del libretto di Janáček. Tale rilettura ambientale, scenica, è congeniale a parlare ad un pubblico occidentale del problema universale della prigionia, tema fra i più discussi, fin dall’Illuminismo. Di fatti, questa regìa di Warlikowski è un grido contro tutti gli abusi di potere che le prigioni incarnano nella loro essenza repressiva; lo dimostrano i video proiettati negli intervalli, fra un atto e l’altro: il primo, in particolare, è l’estratto di un’intervista a Michel Foucault, in cui il sociologo analizza l’improduttività del sistema delle prigioni dal XVIII secolo al ‘900, in sostanza il suo fallimento. In una reinterpretazione moderna, dunque, le scene dell’opera di Janáček si svolgono in una prigione dalle fattezze contemporanee, ma al contempo senza tempo: costumi (moderni) e scene sono affidati a Małgorzata Szczęśniak. L’opera si apre con un detenuto che palleggia e gioca, da solo, a pallacanestro. Il grande spazio si identifica, agli occhi del pubblico, come la palestra della prigione, dietro la quale si intravede un corridoio dove passano detenuti, probabilmente diretti in cella; ma tale grande spazio si risemantizza secondo le necessità sceniche, così come accade per una struttura mobile che funge da ufficio del direttore della prigione, come pure da cella. Momenti notevoli sono il pestaggio di Gorjančikov nell’ufficio direttivo, ma anche le pantomime dell’atto II, giocate con maestria nei passaggi metateatrali, con una certa crudezza (si pensi al tentativo di stupro della prostituta, acuito dall’inquietante uso delle maschere), il che sta bene con il linguaggio operistico di Janáček. L’impressione generale che si ricava è quella di una prigione/manicomio: Warlikowski ha voluto portare all’estremo la sofferenza di questi individui, facendola sconfinare nella follia, come testimoniano i comportamenti dei vari personaggi, tutti improntati a schizofrenici atti imprevedibili – in tal senso, impressionante è la cura nei particolari della caratterizzazione degli stessi, scontornati al millimetro nei loro tragici e isolati microcosmi.

La direzione è affidata al giovane e talentuoso Dmitry Matvienko. Non facendosi spaventare da una partitura non facile, ostica, che sorregge dei lunghi recitativi violenti, Matvienko dona una lettura coerente, tutta improntata a valorizzare l’energia ritmica pulsante di una partitura ansiogena, al cardiopalma, che regala colpi di scena, cambi repentini di agogica, il tutto in un turbinio che non ha quasi requie se non in alcuni monologhi-ariosi che scandiscono la partitura e scavano maggiormente alcuni personaggi. L’intesa con l’orchestra romana è ottima ed il risultato non può che essere energico, vigoroso, autenticamente janáčekiano. Il cast delle voci è di specialisti del settore e tutti donano una performance straordinaria, soprattutto in vista della realizzazione, anche scenica, del personaggio. Mark S. Doss ha una voce brunita e penetrante, vibrata a tal punto da donare una certa dose di profondità filosofica: il ruolo di Gorjančikov, il prigioniero politico che verrà liberato alla fine dell’opera, è azzeccato per lui. Il monologo del I atto è affidato a Štefan Margita nel ruolo di Filka/Luka, che strappa quasi la sua voce da tenore drammatico, pieno e vibrante, per rendere al meglio le frasi del personaggio, terminando con un attacco epilettico scenicamente perfetto. Il ruolo di Aljeja è cantato da Pascal Charbonneau, che si distingue per la chiarezza della sua voce, quasi eterea a tratti (magnifico l’inizio dell’atto II). Infine, è bene ricordare anche lo Skuratov di Julian Hubbard, tenore espressivo e, ancora, dalla voce penetrante. Il III atto, invece, è occupato prevalentemente dal monologo di Šiškov, dove Leigh Melrose brilla per padronanza del mezzo, fraseggio e perfetta resa scenica. Fra gli altri interpreti in scena val la pena citare: Erin Caves (Il Grande Prigioniero), Lukáš Zeman (Nikita etc.) e Clive Bayley (Direttore della prigione).

Una produzione, dunque, molto ben riuscita, che tenta di universalizzare il messaggio di Janáček, la riflessione profonda sulla condizione di prigioniero. Gli applausi ripagano il lavoro di tutti gli interpreti e le maestranze, segnando un successo chiaro e duraturo per questo spettacolo.


 

 

 
 
 

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