L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Dal canto magico all’arte

La minaccia della siccità spinse gli antichi abitanti del Messico a intonare cantilene per invocare lo spirito dispensatore di pioggia; l’architettura delle melodie era realizzata in base agli obiettivi prestabiliti (ampi intervalli tonali servivano a richiamare l’attenzione del dio, accentuavano il carattere supplichevole). Anche gli indù avevano particolari motivi, detti rāga, che dovevano essere cantati durante specifiche stagioni, così come anche i greci prima e i latini poi, i cui inni all’eros dovevano favorire la fecondazione della terra da parte del cielo. La pubblica utilità non era la sola contemplata: abbiamo testimonianze anche di canti che, ad esempio, richiamavano su di sé l’amore di un uomo o una donna. Tuttavia sempre di rito si trattava: anche se per scopi personali, era comunque legato alla magia e alla ritualità religiosa. Le dinamiche amorose potevano essere regolate attraverso l’intercessione di una divinità, come anche le malattie, sovente imperscrutabili  senza un coinvolgimento ultraterreno: ecco, quindi, canti legati alla richiesta di salute e guarigione. In base ai bisogni primari e all'evoluzione della società, il canto si rivolse alla sera dell'alimentazione, poi ancora al lavoro, al sonno, all'incoraggiamento dei guerrieri, all'invocazione della vittoria, e così via. Infine, dobbiamo aggiungere che la musica magica non era diretta solo a ristabilire un equilibrio, vi erano ovviamente molti canti anche per nuocere, manifestare odio e malevolenza, scagliare maledizioni pregando divinità malefiche.

Gli egiziani e le civiltà mesopotamiche conferivano alla musica origine divina, mentre i cinesi cantavano per comunicare coi demoni; il canto era quindi ancora strumento di mediazione con l’universo metafisico. Tuttavia, il ditirambo, che ebbe origine nel VII secolo circa in Grecia come canto corale celebrativo in onore di Dioniso, a un secolo dalla sua nascita si evolse anche in direzione artistica: il contesto religioso iniziò a inglobare un godimento estetico e questi cori cominciarono a divenire oggetto di competizioni nell’ambito delle Dionisie. Secondo Aristotele la drammatizzazione del ditirambo originò la tragedia, via via slegata dalla religione, se non formalmente sostanzialmente, e che ben presto troverà dei luoghi a essa consacrati, venendo anche assorbita, tramandata e rielaborata da altre popolazioni negli anni a venire.

Comunque, fu Confucio in Cina a compiere il passo decisivo, distinguendo nettamente tra musica sacra e profana (così come già postulato, seppur embrionalmente, nel V secolo a.C. dal filosofo Platone nella sua distinzione fra una musica virtuosa che suscitasse negli animi e composizioni da rifiutare per il loro carattere passionale). Fra i luoghi di culto in cui riecheggiavano melodie esclusivamente sacre, ricordiamo le prime sinagoghe del VI secolo a.C., attorno alle quali si sviluppava la vita delle comunità ebraiche, ove salmi erano intonati da veri cori; la salmo­dia fu assorbita anche dalla liturgia cristiana, da cui sbocciò la polifonia, forma vocale che dominò anche il Medioevo profano europeo. Quindi, il canto profano proviene da quello sacro, che a sua volta deriva dal canto magico. I religiosi medievali consideravano il canto sacro come un momento di contrizione e comunione con Dio e in questo è equiparabile alle melodie magiche primitive, tuttavia, a differenza di queste ultime, la salmodia portava la comunità a unirsi in maniera differente: si ricercava la solidarietà, almeno finché la complessità musicale non ha iniziato a esigere una maggiore professionalizzazione degli esecutori. Il canto ecclesiastico non è ancora un’opera d’arte, e nemmeno del tutto slegato dalla praticità: la Chiesa greco-latina rispecchiava il motto agostiniano secondo cui chi canta prega due volte, esprimendo dunque, più che uno scopo pratico, l'amore per la divinità, ben distinta dai sentimenti più terreni dei canti profani. Si ritiene ancora che la musica abbia origine divina, ma in quanto dono fatto all’uomo.

La filosofia rinascimentale sublimerà ulteriormente il canto, paragonandolo a un vero e proprio medico dell’anima: la medicina può curare il corpo, mentre la musica sana lo spirito dai conflitti e turbamenti che lo scindono; l’umanista Marsilio Ficino (Figline Valdarno, 19 ottobre 1433 – Careggi, 1 ottobre 1499) riferisce che una delle sue più efficaci terapie è proprio il canto, che imita

intenzioni e affetti dell’animo, imita le parole, riproduce gesti e movimenti del corpo, azioni e costumi degli uomini, e tutte queste cose imita e riproduce con tale forza trascinatrice, che stimola immediatamente ad imitarle e riprodurle sia lo stesso cantante sia i suoi ascoltatori.

La noia, la sofferenza, il male di vivere dividono l’anima passionale e istintiva dell’uomo dal suo lato più razionale e quest’ultimo sarà il perno su cui ruoterà l’individuo che trova la sua salvezza unicamente nella ragione, nel XVII secolo; il sentimento si rifarà strada nel corso del Settecento, sino a ritrovare la dignità perduta. Gli intellettuali dell’età dei Lumi non offrono semplicemente un’alternativa, non invitano, per reazione alla tendenza antecedente, ad affidarsi esclusivamente all’emotività, auspicano piuttosto una conciliazione tra mente e cuore poiché è loro convinzione che sia l’essere dialetticamente disgiunti a renderci incompleti, dunque infelici. In questo scenario, l’arte è decisiva: soprattutto la musica, accorda le due anime che coabitano nel singolo. Nel Settecento, la visione in prospettiva medico-scientifica del canto non muta rispetto ai secoli precedenti, ma sicuramente si arricchisce di inedite sfumature guaritrici sempre più potenti, paragonabili all’atavico canto magico.

Nei secoli, dunque, l’umanità si riappropria dell’innatismo della propria voce attraverso il crescente rigore delle tecniche votate a educare al canto: dall’antico misticismo dei rituali primitivi giungiamo a una sempre più matura coscienza degli elementi che costituiscono l’universo musicale vocale, e quel “non so che”, cagione dell’apprezzamento di una melodia piuttosto che di un’altra, che rende una voce cantante assolutamente efficace e penetrante, assume una morfologia progressivamente più definita. Il potenziale intrinseco delle voci è la loro unicità, vale a dire ciò che distingue un uomo da un altro. Scoprendo la nostra voce interiore e porgendola al mondo esterno come un melodioso canto impariamo a conoscere le nostre sensibilità e a mostrarle agli altri, e consentiamo alla coscienza dell’uomo di eternarsi, armonizzando i battiti dei cuori con la bellezza che incanta le menti e guida alla virtù.

La voce dell’unicità
La corporeità vocale
Le origini della parola musicale
 

Bibliografia

 

 

 
 
 

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