L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La gioia della condivisione

di Roberta Pedrotti

Omonimo dello scrittore Xavier de Maistre (Chambéry, 8 novembre 1763 – San Pietroburgo, 13 giugno 1852), ne è anche il bis nipote, discendente del fratello - non meno celebre - Joseph: il quarantottenne francese, già arpista dei Wiener Philharmoniker, ora stella solista acclamata in tutto il mondo, ha lontane origini sabaude. In Italia, però, è difficile vederlo esibirsi con un'orchestra e quello del 20 e del 22 con La Toscanini è stato un vero e proprio evento, un'occasione imperdibile per ascoltare dal vivo uno dei più grandi virtuosi dello strumento, un musicista di eccezionali doti tecniche e interpretative [leggi la recensione].

A poche ore dalla replica del concerto a Faenza, abbiamo incontrato Xavier De Maistre nella hall dell'albergo dove alloggiava a Parma per una conversazione piacevolmente informale (dato il luogo di passaggio, senza abbassare la mascherina) a partire da questa esperienza italiana, per parlare poi di tecnica e repertorio, delle nuove generazioni di arpisti e del fare musica in tempo di pandemia.

La prima domanda non può che essere sul suo primo impatto con Parma. 

Ho avuto poco tempo per visitare la città, essendo stato impegnato con le prove, ma sono stato molto sorpreso dal pubblico. È stato molto caloroso, numeroso considerando anche il momento di crisi dovuto alla pandemia, e assai curioso nei confronti di un repertorio e di uno strumento solista che non si sentono spesso. Ho percepito l'attenzione e la gioia di ascoltare qualcosa di nuovo. Non ho lavorato molto con orchestre italiane e suonare qui è stata una bella esperienza.

E per noi è stato un onore ascoltarla qui.

È gentile, ma penso che la crisi che abbiamo vissuto ci abbia cambiati. Prima della pandemia capitava di avvertire quasi un senso di routine, mentre ora ogni concerto è un'esperienza unica di condivisione, sono così felice di poter suonare a Tokyo o con l'Orchestre Nationale de France, le più grandi orchestre, sì, ma quello che conta alla fine è la condivisione, è essere lì. Lavorare può essere più faticoso, bisogna magari provare un po' di più, ma l'importante è condividere la musica, sentire delle emozioni, essere lì con i colleghi sulla scena e con il pubblico. Questa è davvero la fortuna e il piacere che si prova ora, ritrovandosi insieme nella musica.

In questa occasione, poi, è stato particolarmente impressionate sentire dal vivo tutto il potenziale dello strumento, che fino all'Ottocento era forse sentito più come un elemento di colore, a rappresentare zampilli d'acqua o atmosfere celestiali...

Si pensa spesso all'arpa come a uno strumento del XVIII e XIX secolo per il quale c'è poco repertorio originale. L'arpa come lo la conosciamo, con i suoi pedali e la sua struttura si è sviluppata all'inizio del XIX secolo e, come diceva, i compositori l'hanno spesso usata come uno strumento di colore, per un effetto di glissando o nel belcanto per accompagnare un cantante senza conferirle un vero ruolo da solista. In determinati momenti di un'opera di Wagner, in una scena d'amore, ecco che abbiamo l'arpa, non altrimenti. È vero che nel XX secolo i compositori hanno cominciato a trattare l'arpa in modo diverso, a prestare attenzione all'aspetto ritmico, talora più percussivo e penso che proprio Alberto Ginastera abbia rivoluzionato la scrittura, dimostrando che l'arpa può esprimere una grande energia e non essere confinata solo in un contesto etereo.

E l'impatto con il potenziale dello strumento è stato davvero notevole dal vivo.

Ginastera ha deciso davvero di andare contro corrente, contro quello che ci si potrebbe aspettare, di sorprendere e io sono felice che ci si sbarazzi dell'immagine di uno strumento da salotto, riservato a delicate fanciulle e che diventi a tutti gli effetti solista. È vero che ci sono colori splendidi e che è bello suonare giocando fra suoni cristallini e suggestioni angeliche, ma c'è una ricchezza sonora che può andare molto al di là di questo.

Questo dal punto di vista della scrittura. E dal punto di vista tecnico e meccanico? Ricordo di aver visto a Tours magnifici strumenti di Erard: da allora come si è evoluta l'arpa?

La rivoluzione dal punto di vista della meccanica è stata compiuta proprio da Erard. Nel XX secolo si è cominciato a costruire arpe un po' più grandi, si è sviluppata la cassa armonica e con essa un suono più robusto. Io suono un'arpa di fabbricazione statunitense che ha un volume paragonabile a un pianoforte a coda ed è possibile ampliare la gamma sonora per far emergere tutti i colori.

L'arpa che ha suonato in questo concerto non è passata inosservata per colore e disegno: è sua?

Sì, è un'arpa che è stata costruita per me concordando anche il progetto di design, ispirato all'art nouveau. Ho scelto i materiali e questa combinazione di blu e oro bianco per una linea sobria, libera da tutte le decorazioni troppo ottocentesche, troppo barocche o rococò. Ho voluto una linea pulita, sobria, di design. L'arpa è uno strumento di grande impatto anche visivo, bello da vedere, anche per il rapporto fisico fra le dita e le corde: l'aspetto estetico è importante e penso che questo strumento si adatti anche in tal senso al repertorio più moderno.

Dalle composizioni, allo strumento, agli interpreti. Di recente, parlando con insegnanti di Conservatorio mi è capitato di discutere proprio dell'aumento dei ragazzi nelle classi di arpa: molti giovani stanno seguendo le sue orme?

“Molti” forse è dire troppo, credo che la proporzione nelle classi sia ancora di un ragazzo ogni dieci ragazze, ma è vero che qualcosa sta cambiando. Vediamo più arpisti che entrano nelle orchestre, per esempio. Penso che una maggiore visibilità sia stata di esempio e ispirazione per molti giovani, per non vedere più l'arpa come uno strumento riservato alle ragazze e negli ultimi dieci anni stiamo vedendo molti più uomini anche nei corsi superiori dei conservatori. Quando ero studente ero praticamente l'unico!

L'attenzione dei compositori per l'arpa mi sembra che prosegua nel XXI secolo. Lei collabora con autori contemporanei?

Sì. Kaija Saariaho ha scritto per me un bellissimo concerto che ho già suonato con una decina di diverse orchestre. Ho lavorato anche con Peter Eötvös per un concerto che debutterà nel 2024. Ora che ho raggiunto un po' più di notorietà posso avvicinare compositori celebri e orchestre interessate a partecipare alla commissione e alla creazione.

Veniamo da due anni di pandemia. Come l'ha vissuta?

Con molta tristezza, molta incertezza, e non avremmo potuto dire che la crisi sarebbe durata tanto. Una settimana prima del concerto ancora non sappiamo se questo avrà luogo. Siamo in una situazione sospesa, con impegni cancellati in Cina, Giappone, Corea o Australia, dove non si può andare. Ho passato più tempo con la famiglia e gli amici. Poi, tornare di fronte al pubblico ridotto, con cento o duecento persone in sale che ne potrebbero accogliere dieci volte tanto è stato molto duro. Abbiamo bisogno del pubblico e si è compreso quale fortuna abbiamo quando si può creare questa sinergia, quando si può essere insieme per fare musica e condividerla. Ora sento la gioia, la felicità di percepire la presenza del pubblico, che non è più qualcosa di garantito, che si possa dare per scontato. Bisogna davvero battersi per questo. Il problema è che molte persone in questa pandemia hanno perso l'abitudine ad andare ai concerti, spesso non ci sono più abbonamenti e nemmeno per gli organizzatori è facile perché la gente non compra biglietti in anticipo nell'incertezza. Il pubblico manca e ci vorrà tempo perché riprenda le abitudini. E così per noi, che eravamo abituati a programmare gli impegni con almeno due anni di anticipo, si tratta di rivedere tutto: ho concerti che da due anni continuano a essere rimandati. Ma questo mi fa pensare ancora di più a quanto siamo fortunati, a quanto è importante quando possiamo esserci, ora. Anche se è difficile: per la musica la distanza, seppur necessaria, non è una buona cosa.

È il momento di salutarsi, ma con una nota più lieta, dandosi appuntamento alla sera stessa a Faenza: un teatro in cui nessuno dei due era mai stato prima. "Ayez une bonne journée" e "À tout à l'heure", dunque. 


 

 

 
 
 

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