L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ancora su sant’Ambrogio

di Francesco Lora

Qualche tardiva e non definitiva parola sul Macbeth inaugurale della Scala, musicalmente lussuoso, tra meloleoni da tastiera, melomani smaliziati, un’anticipazione sfuggita e una lezione testuale che, ostentata, è in verità un errore bello e buono.

MILANO, 19 dicembre 2021 – C’è ancora qualcosa da dire sul Macbeth inaugurale della Scala [leggi la recensione di Roberta Pedrotti: Milano, Macbeth, 07/12/2021], lo spettacolo predestinato a essere il più discusso dell’anno? Forse no. Questa è una recensione della recita del 19 dicembre, l’ultima col gotha canoro immutato rispetto alla sera di sant’Ambrogio (alla recita conclusiva, del 29, Lady Macbeth e Banco erano Ekaterina Semenchuk e Jongmin Park). I presupposti di originalità, per scrivere dell’opera di Verdi, erano ormai compromessi: gli inflazionati pensieri sono così rimasti a macerare un’altra ventina di giorni, mentre già la gente inizia a recensire, con i pregiudizi, il Boris Godunov di Musorgskij che inaugurerà la stagione milanese del 2002/23 (anticipazione sfuggita al basso protagonista e finora non smentita dal teatro). Una premessa: chi scrive ha assistito allo spettacolo dalla famigerata ‘barcaccia stampa’, ossia dalla più laterale coppia di palchi al quart’ordine, quasi senza visibilità per il critico non più così giovane da sporgersi; il giornalista che, a turno, vi sia ospitato, passa lo spettacolo meditando su quali nefandezze debba aver scritto nella recensione precedente per meritare un simile, chiaro, giusto castigo. La premessa è utile a spiegare perché, qui, si dia conto più di quanto udito che di quanto visto. In particolare due asserti, nondimeno, giovano a inquadrare il nuovo allestimento con regìa di Davide Livermore, scene di Giò Forma, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Antonio Castro, video di D-Wok e coreografia di Daniel Ezralow. Il primo asserto: alla sua quarta inaugurazione scaligera consecutiva, Livermore lavora più di maniera che di nuovo scavo; è un artista ubiquo nei teatri italiani: nei tre mesi prima di Macbeth ha varato altri quattro nuovi allestimenti, e l’impegno a Milano non brilla dopo La traviata e Rigoletto a Firenze, Norma a Catania e Giovanna d’Arco a Roma; lo spettacolo destinato alla Scala si distingue per essere il più prodigo di mezzi scenotecnici ma anche il meno acuto di pieghe drammaturgiche. Il secondo asserto: questo Macbeth di Livermore è uno spettacolo deliberatamente concepito per chi si trova davanti al televisore; chi è in teatro assiste a uno spettacolo non solo differente, ma addirittura incompleto e illeggibile; un singolo esempio li sintetizza tutti: nella scena del sonnambulismo all’atto IV, il telespettatore vede la Lady che cammina a tentoni sul cornicione di un grattacielo newyorkese, con sotto il traffico stradale a strapiombo; un’immagine che impressiona; in teatro, però, c’è soltanto una cantante che cammina lungo un praticabile sospeso: la sequenza video col traffico stradale non è proiettata sulla scena, ma applicata direttamente dai tecnici televisivi; roba da terzo millennio: bisognerà abituarcisi.

Quanto alla musica, anzi, quanto alle voci, i meloleoni da tastiera sentenziano pagelle da inferno dantesco. Al melomane consumato, giramondo e smaliziato si addice invece una valutazione distaccata: egli si è già imbattuto più volte nel facilissimo e frastagliato Macbeth di Luca Salsi, nella grandiosa, tremenda, enorme Lady di Anna Netrebko, nello sfarzoso Banco di Ildar Abdrazakov e nell’immediato Macduff di Francesco Meli; sa che ciascuno di loro, con buona probabilità, è il più dotato e lussuoso interprete odierno della rispettiva parte; sa che ciascuno avrà qualcosa di diverso rispetto alle apparizioni precedenti, dando comunque di che leccarsi le dita; sa, infine, che il vero punto di novità consiste non nell’intercettare i singoli artisti, ma nel goderli radunati tutti insieme. Questa capacità di calare poker d’assi con nonchalance è del resto la più peculiare prova di supremazia della Scala nel mondo: l’atto di strapotere prosegue esibendo una Dama come quella di Chiara Isotton, che ha un calibro da Lady, e un Malcolm come quello di Iván Ayón Rivas, che ha un calibro da Macduff. Il concertatore, Riccardo Chailly, è la massima garanzia vivente della qualità musicale alla Scala: possiede argomenti onde far ristudiare l’opera, dalle basi, a chi l’ha già cantata cento volte; trae intuizioni fraseologiche e suggestioni timbriche, quante ne voglia, dall’orchestra e dal coro milanesi, ma unifica poi il discorso con la costante severità di passo drammatico e un velo di caligine sopra i colori. Avesse egli potuto sovrapporre la lettura a una regìa fatta di niente e capace di tutto, come quella di Graham Vick, per la Scala e per Riccardo Muti, ventiquattro sere di sant’Ambrogio or sono, ne sarebbe uscito uno spettacolo, nel suo complesso, indiscutibile. Resta da ribadire l’errore di ficcare nel Macbeth parigino del 1865 (la versione oggi corrente, eseguita nell’occasione) il monologo finale dal Macbeth fiorentino del 1847: l’esecutore non ha alcuna liceità di scelta, giacché si tratta, nella musica e nella logica, di due partiture distinte, con drammaturgie diverse; tale vizio è duro a morire, se già Massimo Mila perdeva tempo a censurare il fattaccio nel Macbeth milanese di Claudio Abbado, di Giorgio Strehler, della Scala e del 7 dicembre 1975. A cosa servono le edizioni critiche, se in sede esecutiva c’è chi vuole giocare strano, a Monopoli, con le regole di Risiko? Né manca un’ultima curiosità: Lady Macbeth che nella cabaletta, assecondata dai sopratitoli, canta ostentatamente «or tutte sorgete - o furie infernali» all’esposizione e «or tutti sorgete - ministri infernali» nella ripetizione, come se si trattasse di due lezioni d’autore scritte per convivere anziché di un errore bello e buono, passibile di uniformazione, di quelli che la filologia dovrebbe non concimare ma estirpare. Meglio interrompere qui, però, gli strilli di un musicologo.


 

 

 
 
 

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