L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’ombra della ghigliottina

di Luca Fialdini

Buona ripresa, seppur di routine, dell’Andrea Chénier firmato Martone del 2017. Su tutti brillano Maestri e Isotton

MILANO 11 maggio 2023 – Il cartellone 2022/2023 del Teatro alla Scala ripropone l’allestimento del Sant’Ambrogio 2017 dell’Andrea Chénier: tornano quindi sulle tavole del Piermarini i grandi tableaux vivants di Mario Martone nelle scene di Margherita Palli e con i costumi di Ursula Patzak. In questo Chénier si riconoscono alcuni tratti tipici di Martone, come il dualismo e i contrasti, l’attenzione per il dettaglio visivo, l’utilizzo di scene mobili, dei connotati inseriti in un impianto assai più “docile” del Rigoletto del 2022 ma dagli esiti forse meno interessanti.

L’ideazione scenica segue il libretto fondamentalmente senza licenza ma con il gran merito di riuscire a non essere intaccata dalle ingenuità di Illica e soprattutto di togliere la polvere dall’azzurro sofà, cosa di cui il titolo ha in effetti bisogno. Essenziale e davvero poco mobile (è il caso di dirlo!) la gestione delle masse, tuttavia il colpo d’occhio tra gavotte e tribunali è suggestivo e lo stratagemma dell’immobilità – appunto, la composizione da tableau vivent – non viene riproposto in eccesso e non risulta stucchevole.

La direzione di Marco Armiliato garantisce una buona tenuta dell’opera con una felice comunicazione tra palco e buca, mentre l’Orchestra del Teatro alla Scala propone dei colori interessanti; tuttavia non si va molto oltre questo: il risultato è più che apprezzabile ma non esce da una (seppur scaligera) routine. In alcuni casi Armiliato riesce a creare una tensione quasi palpabile – in particolare nei quadri terzo e quarto – e se di solito propone tempi più che corretti, a volte indugia in situazioni un po’ troppo slentate che intiepidiscono la scena. Un peccato anche gli sporadici momenti in cui l’orchestra eccede in sonorità fino a coprire i cantanti. Ben preparato ed efficace il Coro del Teatro alla Scala preparato da Alberto Malazzi, che riesce a farsi notare anche in un titolo non esattamente generoso con il coro.

Il cast, pur ben amalgamato nel suo complesso, presenta discontinuità. I comprimari Lorenzo Tedone (Dumas), Adolfo Corrado (Fouquier Tinville) e i due allievi dell’Accademia della Scala Sung-Hwan Damien Park (Pietro Fléville) e Li Huanhong (Schmidt / Maestro di Casa) assolvono bene alla propria funzione; di statura l’Incredibile di Carlo Bosi, solidissimo e minaccioso, mentre Giulio Mastrototaro delinea con sottile intelligenza un Mathieu popolano, quasi rozzamente intagliato nel legno. Molto buoni anche Ruben Amoretti (Roucher) e Paolo Nevi (Abate), efficace la Contessa di Coingy di Josè Maria Lo Monaco. Infine l’ottima Francesca Di Sauro, dal timbro morbido e dalla dizione impeccabile, regala una Bersi di insolito spessore.

Elena Zilio merita una menzione a parte: chiamata a vestire i panni di Madelon, Zilio dimostra una tenuta vocale sorprendente ma l’interpretazione è stata a dir poco straordinaria. Per la durata della sua scena l’attenzione di tutti non è stata che per lei; il «gioia, addio» un autentico brivido.

All’interno del trio protagonista il nome più debole è quello di Andrea Chénier, che come nel 2017 è interpretato da Yusif Eyvazov. Il tenore azero si segnala per l’interiorizzazione del personaggio, l’energia sul palco e il controllo dello strumento vocale merita elogi; purtroppo la sua pur buona interpretazione viene svalutata dal timbro, poco rotondo soprattutto in acuto, un po’ acre e leggermente nasale, che rende abbassa non poco il termometro della scena.

In questa recita, dopo la sostituzione coperta da Luca Salsi, Ambrogio Maestri si riappropria delle vesti di Carlo Gérard. Al netto di qualche rigidità nel primo attoù, Maestri fornisce un’interpretazione intensa, tratteggiando un Gérard complesso, tormentato e dal timbro possente. Strepitoso – e molto applaudito – il suo «Nemico della patria» del terzo quadro, ma la prestazione di Maestri non merita di essere valutata “a numeri chiusi”, la sua forza percorre interamente l’opera.

Chiara Isotton è la vera rivelazione di questa produzione. Al debutto come Maddalena di Coigny, Isotton possiede uno strumento incredibilmente omogeneo in tutta l’estensione, sempre rotondo e con passaggi di registro invisibili; numerose le preziosità del registro acuto, dove il controllo tecnico e la ricchezza di armonici le consentono un’emissione morbida e ben appoggiata. Il soprano si è dimostrata padrona della situazione in ogni momento dell’opera, sin dall’insidioso attacco de «Ora soave, sublime ora d’amore», ha fatto anche bella mostra di una dizione a dir poco impeccabile e di un fraseggio dall’articolazione netta e pulita. Acclamatissima nell’amata «La mamma morta», Chiara Isotton si è imposta come interprete di primissimo piano e ci auguriamo di poterla riascoltare presto.


 

 

 
 
 

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