L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le peripezie di Cio-Cio-San

 di Stefano Ceccarelli

Ultimo titolo in cartellone al Costanzi prima della stagione estiva presso le Terme di Caracalla, Madama Butterfly di Giacomo Puccini torna nell’allestimento di Àlex Ollé (La Fura dels Baus), inizialmente pensato per gli spazi monumentali di Caracalla ed ora riadattato per il Costanzi. L’opera è concertata da Roberto Abbado e nel cast troneggia Eleonora Buratto nel ruolo del titolo. Ma anche l’inattesa Vittoria Yeo (in sostituzione della collega il 17) ottiene un buon successo personale. Per quanto riguarda il resto del cast, ottimo lo Sharpless di Roberto Frontali e la Suzuki di Anna Maria Chiuri, meno il Pinkerton di Dmytro Popov.

ROMA, 17 e 24 giugno 2023 – Il Teatro dell’Opera di Roma ha un lungo rapporto con Madama Butterfly di Puccini. Si tratta, infatti, di un titolo frequentemente riproposto, che ha avuto tre recenti allestimenti al festival di Caracalla (2015, 2016 e 2021), tutti sotto la regia di Àlex Ollé, uno dei componenti del gruppo La Fura dels Baus. La Fura è celebre per le sue regie avveniristiche, molto anticonvenzionali; quella per questa Butterfly non fa eccezione e risulta, forse, ancor più dissonante in questo riallestimento per il Costanzi. Le impressioni avute avendola rivista per la terza volta sono, infatti, leggermente più sfumate di quelle provate la prima, nel 2015. Qui di sèguito riporterò, dunque, le impressioni del 2015 (leggi la recensione), con qualche aggiunta e modifica, dettata da più recente maturazione critica.

Àlex Ollé firma una Butterfly intelligentemente anticonformista, dal forte impatto visivo; si tratta di una regia evidentemente frutto della mente di un direttore artistico de La Fura dels Baus (1979). Dopo le prime sperimentazioni personali (negli anni ’80) e l’inizio della collaborazione con La Fura, Ollé esordisce come regista nel 2013. E la sua firma è chiaramente intrisa dei colori della Fura. Si sa: la Fura dels Baus è un perfetto esempio di un tipo di approccio al teatro che può fermamente sconvolgere. In sintesi, può accadere che o si amino, o si odino le loro regie (loro, giacché la Fura è un’associazione di sette direttori artistici). Ma chi le odi, non dovrebbe mai farlo di stomaco: del resto, «penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista» (P. P. Pasolini). La “furana” regia di Ollé, anzi, abbandona taluni eccessi “scandalosi” e si adatta alle peculiarità drammaturgiche della Butterfly. È soprattutto questo che ammiro nella Fura: tutte le loro regia hanno sempre un’idea intelligente che le impernia e le struttura, non mostrando mai grossolane illogicità e stimolando sempre l’attenzione e la curiosità del pubblico – o, perlomeno, di quel pubblico che sappia, o voglia, coglierne le continue allusioni, in un gioco perenne di raffinato alessandrinismo. Ollé immagina che B. F. Pinkerton divenga, una volta stabilitosi a Nagasaki, un imprenditore-squalo nel campo dell’edilizia. Sulle celeri, energiche (e pur “nipponicamente” aggraziate) note del brevissimo Allegro in preludio, un operaio sta tracciando le strisce per una nuova abitazione su un campo vedere, curato, dove frattanto eleganti camerieri apprestano il ricevimento nuziale che F. B. Pinkerton ha preparato per celebrare il matrimonio con il suo nuovo acquisto: la bella e giovanissima Madama Butterfly. Il sensale Goro fa anche il geometra, discutendo dei piani di costruzione con Pinkerton. Ciò che, forse, mancava già nell’originale allestimento scenico (Alfons Flores) era una più decisa raffigurazione scenica del Giappone: sarebbe bastato qualche tocco, anche proiettato, per dipingere con maggior decisione quel Giappone in procinto di essere ‘stuprato’ dalla furia edilizia americana. Un Giappone, insomma, troppo poco aderente a quelle «figure da paravento» qui più che mai necessarie, poco rappresentato da un grazioso ed esile boschetto di bambù, orientale sì ma poco manierato. Butterfly, ultima, estrema epicorica effigie, fa la sua entrata imbozzolata in un abito candidamente bianco, con le compagne, fra il canneto di bambù, esaltata da una tenue luce alle spalle. Il momento è assai poetico: un vero coup de théâtre. È Pinkerton che la svelerà al pubblico, che la renderà farfalla – nomen omen – e ne «infrangerà l’ale». I costumi classici di Butterfly e delle sue damigelle (con un modernizzato e stilizzato chimono rosso, non certo esente dalle influenze della cultura manga) sono l’unico elemento realmente giapponese della scenografia – se si prescinde dal boschetto di bambù; un prato verde, ampio, con dei tavolini sulla destra e una semplice struttura effimera a mo’ di decorazione (qualche palo bianco con morbidi veli rossi svolazzanti al vento e delle sedie) sono gli unici altri scarni elementi. La gaia atmosfera del matrimonio è interrotta dall’arrivo di Bonzo, secondo coup de théâtre: Bonzo è il capo di un’associazione mafiosa e lo accompagnano i suoi scagnozzi, con tanto di bastoni (sorta di moderni ninja in occhiali da sole). La scena è sapientemente giocata fra l’aspetto comico della citazione tarantiniana (alla Kill Bill) e l’opposizione fra un prepotente occidente e un oriente occidentalizzato nella foggia degli abiti. L’occidente, dunque, ha già vinto: l’elegiaco duetto amoroso, finale del I atto, rappresenta una Butterfly conquisa, ammaliata, in balia di Pinkerton, in un’atmosfera trasognata – nello svestirla, Pinkerton le svela le ali di farfalla disegnate sulla schiena. Il secondo atto sancisce uno stravolgimento totale. Pinkerton ha deturpato Nagasaki con i suoi abusi edilizi: Ollé proietta sullo schermo che fa da sfondo grattacieli in costruzione, che andranno, mano a mano che l’opera arriverà alla conclusione, in rovina. Al centro della scena v’è una baracca che svetta in un inferno di cemento – degli operai entrano in scena e lavorano a degli scheletri di fondamenta: l’effetto dei tableaux vivants è perennemente cercato da Ollé. Cio-Cio-San è diventata una sorta di Harajuku-girl: veste con abiti kitsch occidentali, ostentando sul petto la bandiera Stars and Stripes. La sua fede è incrollabile, indefessa: Ollé gioca, volutamente, con le tensioni naturalmente scaturite dal testo e della musica, dalla drammaturgia in sé, mescendovi elementi trash e di ostentata pacchianeria, come l’ingresso del ricco Yamadori. Ollé tesse sapientemente le fila di una continua inventiva registica, giocando con i diversi registri drammaturgici. Il finale è straziante, pur non rispettando le volontà librettistiche: durante l’estrema aria di Butterfly, il figlioletto, trattenuto dalle braccia di Suzuki, chiama la madre, che si andrà a uccidere proprio dentro la baracca – Butterfly non benda il figlio per poi uccidersi. Il momento della morte è quello che, a distanza di tempo, continua a convincermi meno: l’uso del proiettore, che insanguina il palcoscenico, è uno scialbo correlativo dell’intensa morte di Butterfly, che avrebbe meritato di essere vista fino al momento estremo. Comunque, è difficile trattenere le lacrime. Va dato merito ad Ollé di aver creato, con un linguaggio del tutto innovativo, una Madama Butterfly moderna, intelligente. Le scene di Alfons Flores e i costumi di Lluc Castells hanno coronato questa incredibile atmosfera. Un’atmosfera che ha la sua matrice originale, e sintesi, nella vittoria colonialista dell’occidente sull’oriente: «proponiamo un significato definitivo dell’opera come perdita del paradiso, e il personaggio di Pinkerton diviene simbolo di uno tsunami neoliberista – ultima conseguenza del feroce colonialismo –, capace di distruggere ogni cosa», afferma Ollé (programma di sala).

Questa Butterfly costituisce anche il debutto nel titolo di Roberto Abbado. Direttore sensibile e versato nella tradizione belcantistica, Abbado legge con dinamica freschezza una partitura difficile, dall’orchestrazione robusta, mitteleuropea, ma con passaggi di delicato esotismo. Abbado riesce a gestire con gusto tempi, stacchi e dinamiche, lasciando cantare le voci, che devono comunque faticare a svettare su una trama sonora così fitta e composita; ciononostante, il direttore è in vigile comunicazione con il palcoscenico, leggendo le venature orientaleggianti, ora seducenti ora tragiche, con intensità e perizia. Fin qui, lo spettacolo pare essere filato interamente liscio; invece, è il caso di dire che il personaggio di Cio-Cio-San ha vissuto più di una peripezia fuori dal palcoscenico. La prima delle sere in cui ho assistito a questa Butterfly (il 17), era Eleonora Buratto ad essere attesa nel ruolo del titolo. Già indisposta dalla première, però, la Buratto rinuncia in extremis. Il pubblico romano lo apprende oramai seduto in teatro, quando viene annunciato che Vittoria Yeo, impegnata a Bari, ha accettato di catapultarsi fino a Roma, dopo un viaggio in macchina lo stesso giorno, per cantare il ruolo. Si paventa, chiaramente, una performance incerta, ma la Yeo stupisce tutti, soprattutto sul lato della recitazione. Delicata, sensuale nel I atto; inconsapevole, poi tragica nel II. La Yeo rimane impressa per la sua presenza scenica. Vocalmente, la cantante non mostra una voca statuaria (non sempre riesce a svettare sopra l’orchestra), ma comunque espressiva e ben porta. Apprezzabili i passaggi sensuali del duetto d’amore alla fine del I atto, un’esecuzione trascinante di «Un bel dì, vedremo» (grazie a cui si guadagna un applauso sonoro) e la scena finale, impressionante sia sul piano vocale che su quello attoriale. La performance della Yeo, infatti, sembra crescere di scena in scena, in una climax che culmina in un finale eccellente. Dmytro Popov canta decisamente meglio il 24 che il 17; il problema è che possiede una voce poco adatta al ruolo, un tenore sfrontato, chiaro, seducente, svettante. Il fraseggio di Popov è poco deciso e la voce, talvolta, non emerge sotto l’orchestra. Certamente, il cantante possiede acuti svettanti e potenti, ma mancano molti colori, pur necessari per la parte. Il momento forse migliore è la scena iniziale del I atto, dove inanella una serie di acuti (quando inneggia all’America), ma esegue una grigia «Amore o grillo, dir non saprei» (come lo è, pure, la finale «Addio fiorito asil»). Il duetto finale del I atto risulta in linea con il resto della performance, se si escludono alcuni momenti più tenui e delicati. Magnifico lo Sharpless di Roberto Frontali, sia per fraseggio, che per potenza vocale. Frontali è un cantante intelligente, che sa cogliere le sfumature più affettuose di questo personaggio, che tenta invano di rimediare ai disastri di Pinkerton; indimenticabile la scena della lettera dal II atto (uno dei momenti più tristi dell’intera tradizione dell’opera lirica), dove Frontali sfrutta tutti i colori del suo registro per rendere efficace scenicamente questo commovente passaggio. Smagliante anche la Suzuki di Anna Maria Chiuri, che mostra un mezzo vocale solido, pieno, come pure una recitazione sempre convincente – momento per lei migliore è, forse, il ‘duetto dei fiori’ del II atto («Scuoti quella fronda di ciliegio»), in particolare con la Buratto. Eccellente il Goro di Carlo Bosi, cantante versato in questo tipo di ruoli comprimari; ottima, pure, Ekaterine Buachidze nel ruolo di Kate Pinkerton. Fra gli altri comprimari si segnalano, almeno, Luciano Leoni (Bonzo) e Eduardo Niave (Yamadori).

Non contento di non aver potuto ascoltare la Buratto nel ruolo del titolo, sono ritornato anche il 24 e ne è valsa la pena. Eleonora Buratto canta una Butterfly magnifica, che ha nel lussureggiante mezzo vocale il suo punto di forza. La Buratto svetta sempre sull’orchestra, chiara e limpida. Nel duetto del I atto gioca con i filati, colorando i passaggi di note delicatamente esotiche. Nel II atto l’interprete dona un’esecuzione di «Un bel dì, vedremo» che fa letteralmente cadere giù il teatro; stupisce, inoltre, nella drammaticissima scena in cui rivela il figlio a Sharpless («Sai cos’ebbe cuore di pensare quel signore?»), dove cava accenti tremendi, strazianti. Indimenticabile, poi, il duetto dei fiori con la Chiuri: le due voci si armonizzano splendidamente e giocano con delicati e vibrati filati nella seconda parte del pezzo (sui versi «Gettiamo a mani piene»). Nel finale, la Buratto termina la performance con impressionante intensità. Il Costanzi le tributa un lungo applauso, che la ripaga dei momenti di non perfetta salute durante questa produzione.


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.