L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Molto rumore per nulla

di Sergio Albertini

Fra luci e ombre, Carmen al Lirico di Cagliari ottiene il consueto successo che sembra arridere inevitabilmente a ogni produzione nel capoluogo sardo.

CAGLIARI, 30 giugno 2023 - “Molto rumore per nulla”. Il titolo di un testo teatrale di Shakespeare è oramai entrato nel gergo comune, ad indicare una eccessiva esagerazione per qualcosa che è invero inconsistente, o del tutto trascurabile. Come il 'rumore' attorno a una nuova produzione di Carmen al Lirico di Cagliari affidata alla regia di Renato Bonajuto che, in un'intervista pubblicata nel bel programma di sala, afferma: “La vicenda (…) si svolge alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, in Spagna naturalmente, in piena dittatura franchista”.

La stessa cosa, peraltro, si ritrovava proprio in una produzione realizzata nel 2005 per Cagliari (che poi ha girato vari teatri) fece Stephen Medcalf (e che valse al suo autore il Premo Abbiati 2006 per la migliore regia d'opera). L'allestimento a Cagliari fu ripreso nel 2018, e restituiva l'autentico carattere di opéra-comique ripristinando, vivaddio, i parlati. C'era lo spazio claustrofobico (come con Bonajuto) e tanto di aereo nel covo dei contrabbandieri. Nella fase conclusiva del regime franchista l'aveva ambientata Calixto Bieito (spettacolo nato al Festival di Peralada, e visto anche a Palermo, Torino e Venezia): atmosfera militare brutale, energia sessuale cruda, un modo di desolata assenza di morale. E Richar Eyre, al Metropolitan, ancora all'epoca della Guerra Civile spagnola, con palcoscenico rotante (come qui con Bonajuto). Anche Hugo de Ana a Verona aveva ambientato la sua Carmen nella Spagna del regime franchista, in uno spettacolo dove ben si evidenziava un mondo in rovina e decadente; in altre produzioni dello stesso regista l'azione era spostata più sul franchismo degli anni Trenta, con alti rete metalliche (come qui con Bonajuto) e i manifesti d'epoca (come qui, nel sipario disegnato da Daniele Coppola). E la Spagna franchista ritorna nella scelta del regista William Kerley, vista al Petruzzelli di Bari.

Insomma, senza voler proseguire con l'elenco, un'idea nuova non arriva. Anzi, per certi versi, è una lettura ancora intrisa di un modo/mondo di fare teatro oggi difficile da accettare: le sigarette finte, i bicchieri vuoti, la parrucca color stoppa con treccine di Micaela.

Danilo Coppola ha ideato una struttura ruotante con degli elementi a griglia e un'unica via di accesso allo stretto spazio disponibile da cui entrano i bambini, i soldati, il popolo, le sigaraie. Se Bonajuto riesce, tuttavia, a far muovere bene le masse corali e a ottenere una efficace contrapposizione tra i piccoli 'balilla' e le irrequiete bambine, c'è un affastellarsi di un troppo che rende troppo poco. Il fontanile al centro diventa un passatempo per tutti che immergono le mani nell'acqua (con un lampione a lato terribilmente oscillante). Piccoli ambienti in un tardo decò (ben valorizzati dalle luci fredde di Valerio Tiberi) vedono Carmen ammanettata ma condotta con una catena a mo' di guinzaglio da un poco credibile José. Ci sono diversi momenti di pura oleografia, come le stucchevoli danze (firmate da Luigia Frattaroli) sul proscenio durante un entr'acte e nella taverna di Lillas Pastia (quel tipo balli spagnoleggianti che fanno la delizia delle comitive intruppate in un tour sivigliano). Poco convincente l'ambientazione del terzo atto in una cava di marmo: un container calato dall'alto (?) serve solo a due, tre sporadiche visite dei contrabbandieri, mentre la cava è caratterizzata in tutto da due parallelepipedi di marmo dove avviene un duello rusticano tra un Josè in serie difficoltà sceniche ed Escamillo. Due i momenti in cui trovo la regia di Bonajuto convincente: la vestizione del Torero intravista da un velario, durante l'ultimo entr'acte, con tanto di Madonna a sottolineare l'aspetto militare del Franchismo (anche se imperfetto risulta scenicamente lo spegnimento dei lumini posti sotto la statua), ma soprattutto il finale, in cui l'inseguimento dei due amanti sulla scena rotante e tra le griglie esalta ed esaspera le ossessioni, il senso di una fuga impossibile. Gli applausi qui sono i più meritati.

Meno convincono i costumi disegnati da Marco Nateri; la sfilata dell'alguazil, dei chulos, dei banderillos, dei toreri sono nella pura tradizione, ma la folla del quarto atto indossa abiti festosi e colorati che poco s'adattano ad una Spagna d'estrema miseria (le tessere annonarie furono in uso sino alla fine del 1952). Insomma, sembra che il tutto si caratterizzi alla fine con dei rapidi saluti fascisti a braccio teso e ai contrabbandieri/partigiani/resistenti che alzano il loro pugno in alto.

Quel che rimane per me un mistero è che a Cagliari non esista il dissenso, o la perplessità, o il dubbio (si tratti di una direttrice incompetente, di un tenore impreparato, di una regia debole): si applaude (e si commenta sui social) come se non ci fosse altro. Quanto alla musica, Fabrizio Maria Carminati conosce bene il suo mestiere e sa che Carmen è molto più del colore locale, è attraversata da una complessità nascosta. Spiace che opti per la versione Guiraud (revisione viennese dell'ottobre 1875), con quei recitativi musicalmente ben risolti, che facilitano i cantanti, che seguono fluidamente la narrazione. Ma l'opéra-comique come Bizet l'aveva scritta e pensata continua ad abitare altrove.

Già dal Prélude si ascolta un'intesa assoluta di Carminati con l'orchestra cagliaritana (nonostante l'infausto scoppio di applausi tra la fine del ritornello del rondeau e l'episodio modulante in re minore successivo; suvvia, basta con questa ossessione dell'applauso dovunque!). L'ingresso del coro viene introdotto da un disegno di archi e legni di raffinata eleganza, legni che realizzano la giusta inquietudine all'ingresso di Micaela. L'ottima cornetta fuori scena preannuncia l'arrivo dei monelli e qui Carminati mantiene un equilibrio impeccabile tra il pizzicato degli archi e i due ottavini. Il direttore non cerca, in questa Carmen, di ispessire il lato drammatico, riesce a trovare sempre una luminosità di gusto mediterraneo, ora nel caotico brusio della piazza, ora nella quiete pastorale delle valli e dei monti (qui, ricordo, cava di marmo) e persino nel vorticoso e concitato duetto che conclude l'opera.

Poi, ci sono i cantanti. E, soprattutto, lei. Carmen. Protagonista assoluta, vera femme fatale, vivace e torbida, infiammata di cupo fatalismo come di passione per la danza. J'Nai Bridges è una protagonista selvaggia, sensuale, scenicamente apprezzabile (probabilmente aiutata dai suoi trascorsi da giocatrice di basket); sa muoversi in scena con naturalezza e con disinvoltura, e costruisce una Carmen impeccabile, ora sfrontata, ora cupa e ansiosa (nella scena delle carte), fino al duetto conclusivo, rabbiosa e disperata. In partitura il canto di Carmen si estende dal La bemolle sotto il rigo al Si; la Bridges ha un'ottava superiore decisamente ben timbrata da mezzosoprano (anche se pare perdere volume negli ensemble), ma gonfia l'ottava bassa, con un suono poitriné che ne volgarizza il risultato.

Comprendiamo che per il Lirico di Cagliari non sia stato possibile avere nei panni di Don José né Jonas Kaufmann né Benjamin Bernheim e che forse neppure Alagna era disponibile; così, ecco Carlo Ventre. Un canto sfogato, che conosce solo le dinamiche dal mezzoforte in su: ora “La fleur que tu m’avais jetée” (battuta 173) è indicata espressamente “p, con amore” e termina con un si bemolle che va emesso in un dolcissimo sfumato pianissimo (si ascolti Jon Vickers, e poi si confronti). Si tratta di un tenore che possiede certamente un registro acuto argenteo e ben proiettato, ma anche di un interprete generico, nel canto come nella recitazione. Ovviamente, applausi cagliaritani sempre generosi.

Gli altri due protagonisti sono stati decisamente una spanna sopra; la Micaela di Marta Mari presenta una interprete di ottimo livello, dall'emissione eccellente, sebbene penalizzata da un abito cilestrino (come suggerito dal libretto) e da una parrucca che la facevano più somigliare suo malgrado a un personaggio dei Legnanesi; l'Escamillo di Pablo Ruiz ha timbro virile e i suoi couplets sono gestiti con disinvoltura scenica.

Il resto del cast è pressocchè perfetto: Le Dancaïre di Giuseppe Esposito, Le Remendado di Andrea Schifaudo, Luca Bruno (Morales), Luca Dall'Amico (Zuniga), Ilaria Vanacore (Frasquita), Maria Ermolaeva (Mercédès). Una lode particolare al coro di voci bianche del Conservatorio 'Palestrina' di Cagliari preparato da Francesco Marceddu, anche per l'eccellente resa scenica, e al Coro del Teatro Lirico diretto da Giovanni Andreoli. Successo, teatro pieno, ovazioni. Io resto con le mie perplessità, in assoluta minoranza.


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