L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il riscatto rinnovato

di Roberta Pedrotti

Anche Brescia apre le celebrazioni per l'imminente centenario pucciniano e lo fa con l'interessantissima e riuscita proposta integrale della versione di Madama Butterfly che, proprio al Grande, ottenne il primo successo dopo il fiasco del debutto alla Scala.

Speciale Madama Butterfly

I libretti di Madama Butterfly

BRESCIA, 17 luglio 2023 - Mentre altrove l'imminente centenario pucciniano si prepara fra polemiche di bassa lega, politicizzazioni strumentali, sceneggiate e tristi gazzarre, c'è chi prende la cosa seriamente. A Brescia, per esempio, dove il 28 maggio 1904 Madama Butterfly, rivista rispetto al fiasco milanese del 17 febbraio ma non ancora delineatasi nella forma che ritroviamo d'abitudine nei teatri, riscosse il suo primo successo. Riproporre quella versione non è un semplice atto dovuto, ma l'occasione per impegnarsi in una coproduzione internazionale, di portare lo spettacolo fuori dal circuito regionale anche a Lucca e in Estonia, a Tallin. Debutta nel titolo e in una produzione del teatro della sua città – incredibile dictu, solo ora: la Carmen che vi diresse per il circuito lombardo nel 2008, infatti, proveniva da Cremona – Riccardo Frizza e si scrittura una primadonna del calibro di Eleonora Buratto, che purtroppo darà forfait per ragioni di salute ma sarà sostituita in maniera eccellente da Vittoria Yeo; anche per incastri di calendari e locandine, l'inaugurazione, fuori abbonamento, è quindi collocata non nel fine settembre canonico, ma in un'inconsueta metà luglio. Questa scelta di date, difesa dal sovrintendente, lascia perplessa parte del pubblico, ma tant'è: il risultato dà un po' ragione a entrambi, perché da un lato vedere già l'anteprima fuori stagione così affollata, con un'età media decisamente bassa (ufficialmente era riservata agli studenti, ma non c'erano solo loro in sala) fa pensare che il Grande non abbia mancato il bersaglio con questa decisione, dall'altra il calore e la partecipazione del pubblico bresciano fanno sognare una stagione lirica sempre più ricca (ogni anno OperaLombardia produce cinque titoli d'opera e solo quattro ne arrivano in Corso Zanardelli, nel 2023, esclusa la Butterfly estiva, in abbonamento saranno tre). Al di là, poi, della produzione in sé, dell'impegno profuso, delle questioni logistiche e amministrative e delle ragioni del cuore e della passione, bisogna sottolineare come Brescia non si sia limitata a omaggiare la storia, ma abbia impresso sostanza con un convegno internazionale di studi dedicato alla tragedia giapponese di Puccini. Così si celebra il maestro.

Venendo allo specifico di questa Madama Butterfly, a Brescia non è la prima volta che torna e ce ne eravamo occupati già nel 2014 (quando, però, una ventina di battute era stata tagliata). Certo, non si può nemmeno immaginare che questa versione, né tantomeno quella milanese di pochi mesi prima, possa scalzare quella standard considerata definitiva. Ma, tanto è perfetta quella, quanto queste che l'hanno preceduta meritano d'essere conosciute perché non si configurano come semplici abbozzi, bensì come testi compiuti con la loro ragion d'essere e precisi motivi d'interesse, anche nell'evoluzione del pensiero drammaturgico e della sensibilità del compositore in rapporto con il pubblico. Nella versione bresciana, per esempio, si calca ancora la mano su un esotismo che talora si colora di caricatura: a volte può essere superfluo (eliminando le spudorate espressioni razziste delle prime stesure, Pinkerton non diventerà certo meno odioso, solo meno greve), a volte, però, sottolinea il legame di Cio Cio San con la propria cultura d'origine, un legame che qui non sembra mai riuscire a recidere del tutto. I riferimenti al denaro potranno apparire ridondanti, ma il fatto che sia la fanciulla stessa a confermare “Per me spendeste cento yen, ma vivrò con molta economia” offre una diversa prospettiva sulla psicologia e la consapevolezza della protagonista, la quale dichiara pure di aver deciso di sposarsi “per qualche tempo” ma di aver provato repulsione all'idea di un marito americano prima di conoscerlo e innamorarsene. Innamorarsene come un'adolescente in bilico fra malizia e timidezza (certe divagazioni che saranno poi espunte dalla versione cosiddetta “definitiva” fanno pensare a questo), concretezza quasi cinica, ferrea determinazione e tenera ingenuità.

C'è, inoltre, da riflettere sul rapporto fra testo e musica in Puccini, con passaggi in cui il libretto cambierà radicalmente, come nel primo atto (sulle stesse note su cui Cio Cio San canterà “Amore mio!” qui getta gli ottoke “E questi via!”, ma, in fondo, il ripudio degli avi e la dichiarazione d'amore possono coincidere) e soprattutto nel secondo (la parte conclusiva di “Che tua madre dovrà” era in origine un racconto quasi fiabesco di un incontro con l'imperatore che trasforma il figlioletto in un principe, non la disperata invocazione di morte cui siamo abituati).

A tutto questo devono badare in primis Riccardo Frizza sul podio dell'orchestra dei Pomeriggi musicali e la regista Rodula Gaitanou. Il primo evita con decisione ogni indugio, ogni abbandono al sentimentalismo. È una tragedia crudele, spietata, che procede con rigore implacabile, senza indulgenza o accattivanti allettamenti, senza aromi floreali. Ciò, peraltro, non vuol dire che si tratti di un dramma monolitico, come ben evidenzia la sospensione attonita del coro a bocca chiusa, più onirico e straniante che dolce e cullante, ma pur sempre delicato (ottima la prova del complesso di Operalombardia preparato da Diego Maccagnola).

Gaitanou si avvale di un impianto scenico essenziale firmato, come i costumi, Takis e ben illuminato da Fiammetta Baldiserri. È evidente che le esigenze di coproduzione – non solo spazi diversi, ma anche questioni di trasporto e stoccaggio – impongano un minimalismo che non disdice comunque al soggetto. Semmai si percepisce una certa indecisione fra una visione più didascalica e una più astratta, con elementi orientali mescolati ad altri decontestualizzati. L'azione si sviluppa, comunque, con limpida chiarezza e funziona soprattutto la caratterizzazione della protagonista, grazie anche alla prova di Vittoria Yeo, ben più che una salvatrice della patria. Il soprano coreano non ha solo dizione sempre esatta e intellegibile, ma dimostra anche una personale immedesimazione nella parte, cui conferisce sensualità e decisione (in tal senso non appare poi così strano che al “F.B. Pinkeron, giù” non sia lei a genuflettersi, ma lui a chinarsi in un baciamano), ma anche una fragilità che affiora in lampi di follia. Va a suo onore l'aver imparato e interiorizzato la parte in così poco tempo e ha dimostrato vera intelligenza artistica nel dare valore espressivo a ogni suono, pieno timbrato o leggermente velato a seconda dei casi.

Ottima anche la Suzuki giovane e volitiva di Asude Karayavuz, capace di fronteggiare anche fisicamente il Goro di Giuseppe Raimondo, corretto ma non troppo pungente. Né si può dimenticare la Kate di Maria Cristina Bellantuono, che rende giustizia a una parte assai più ampia nella versione bresciana. Daryna Shypulina (la zia), Tiziana Falco (la cugina) e Serena Pulpito (la madre) completano il coté femminile della locandina.

Sergio Escobar ha mostrato un'emissione e una musicalità non sempre impeccabili nei panni di Pinkerton (ricordiamo che è in questa versione che viene inserita "Addio, fiorito asil"), mentre Devid Cecconi ha vestito con sicurezza quelli di Sharpless. Fra il brusco zio Bonzo di Fulvio Valenti, il convincente Yamadori di Alex Martini, il commissario di Tong Liu e l'ufficiale del registro di Mattia Rossini, si distingue – anche per il suo ruolo poi quasi totalmente espunto nella versione corrente – lo zio Yakusidé di Masashi Tomoguci, spiritoso e non macchiettistico. Molto bravo, e impegnato in scena, il piccolo Enea Piovani, figlio di Cio Cio San (e già figlio di Norma nella scorsa stagione).

Nonostante il caldo torrido, presenti e fedeli come Cio Cio San all'appello dell'opera, i bresciani non sono però traditi, né è tradito Puccini, che ancora una volta, dopo essere stato vilipeso altrove, al Grande trova riscatto.


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