L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I Capuleti impagliati

di Giuseppe Guggino

Poco felice inaugurazione di stagione al Massimo di Palermo con un dimenticabile allestimento dei Capuleti e i Montecchi belliniani per la regia del coreografo Daniel Cohen. Migliore la parte musicale grazie al Romeo di Maria Kataeva e alla direzione di Omer Meir Wellber.

Palermo, 22 novembre 2023 - Un’edizione dei Capuleti e i Montecchi di Bellini all’insegna del Regietheater inaugura un poco sottotono la nuova stagione d’opera e balletto del Teatro Massimo di Palermo, con qualche defezione fra le masse artistiche a causa dell’agitazione sindacale delle masse artistiche e tecniche del teatro, legata al rinnovo del CCNL per le Fondazioni Lirico Sinfoniche. Occorrerebbe pertanto concedere il beneficio del dubbio alla compiutezza realizzativa del disegno luci firmato Bambi, invero assai poco rifinito, e – più in generale – allo spettacolo nel suo complesso, se non fosse che la reinvenzione drammaturgica del regista e coreografo Idan Cohen fatica enormemente a tradursi in uno spettacolo di una qualche (anche labile) coerenza. Solamente dalla lettura delle note di regia – cui si condona la collocazione nel “tardo Ottocento” di compositori quali Vincenzo Bellini ed Hector Bérlioz – si decifra che l’intento è quello di rappresentare l’eterna giovinezza dei protagonisti ambientando la vicenda in un laboratorio di impagliatura e imbalsamazione. Si coglie così solamente a posteriori il senso dell’andirivieni dei danzatori del Corpo di ballo del Massimo in camice bianco, intenti ad armeggiare con un cigno bianco su un piano di lavoro o dell’uscita dei protagonisti da teche di vetro, così come il loro tragico epilogo, consumato ancora all’interno di una teca. Se poi la gestualità si trascina stancamente attraverso i consumati stereotipi d’arte drammatica, pur con qualche confuso raddoppio di personaggi, nell’indefinibile spazio popolato da teche contenenti sabbia (forse delle clessidre stilizzate) disegnato da Riccardo Massironi, di poco risollevano l’esito complessivo gli estrosi costumi di Edoardo Russo, giocati sul contrasto fra nero e bianco, con il riferimento al cigno in impagliatura costituito dalle piume caratterizzanti l’abito di Giulietta.

Per fortuna la parte musicale cui sovrintende Omer Meir Wellber si colloca molte spanne al di sopra di quella visiva. La lettura del direttore israeliano suona quasi antibelliniana, concedendo poco o nulla all’espansione lirica, anzi precipitando l’azione verso il finale con tempi serratissimi, ma quantomeno sia l’Orchestra che il Coro, preparato come di consueto da Salvatore Punturo, sono coinvolti in una prova di ragguardevole brillantezza di suono.

Ottimo il Romeo di Maria Kataeva, la cui voce risuona con buon corpo nei centri e apprezzabile proiezione in acuto. Meno convincente è Marina Monzò che, pur in un contesto di generale correttezza, risuona meno pregevole in acuto e maggiormente in difficoltà alle prese con la spericolata agogica tenuta dalla bacchetta. Sonoro e pugnace il Tebaldo di Ioan Hotea si distingue più per le pregevoli intenzioni espressive che non per lo strumento, invero piuttosto anonimo.

Più che plausibili i due bassi sono il severissimo e talvolta truce Capellio di Marco Spotti e la più mite vocalità di Gabriele Savona, affettuoso Lorenzo.

Alla ribalta finale sullo spettacolo non si abbatte alcuna contestazione da parte del pubblico che preferisce optare per fiacchi e sbrigativi applausi, dirigendosi presto al recupero di soprabiti ed ombrelli al guardaroba, quanto mai necessari per una serata anzichenò piovosa.


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