L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il Beethoven dei nostri tempi

di Lorenzo Cannistrà

Igor Levit ritorna a Milano, debuttando per la Società del Quartetto. Il pianista russo, naturalizzato tedesco, non smentisce la sua fama di interprete tra i più originali e significativi della sua generazione, restituendo con luminosità e coerenza la complessità delle ultime tre sonate di Beethoven

MILANO, 14/02/2023 – Questa volta in Conservatorio sono arrivato trafelato e in ritardissimo, subendo giustamente l’onta di dover entrare in sala dalla galleria e accontentandomi poi di un posto defilato e di fortuna. Ma soprattutto mi sono perso gran parte del discorso iniziale di Igor Levit, il quale, come poi ho appreso, ha avuto la sagacia di far precedere il suo recital da un divertente aneddoto che ha strappato più di una risata in Sala Verdi.

Del resto l’impaginato proposto questa sera, le ultime tre sonate di Beethoven, è di quelli in cui immergersi profondamente per un’ora abbondante, per poi risalire in superficie solo alla fine e sempre con una consapevolezza nuova. Rudolf Serkin considerava questo come esempio di un “grande” programma, che non a caso il sommo pianista eseguì dal vivo e a memoria fino ad età molto avanzata. Queste sonate, com’è noto, mettono definitivamente in crisi la forma tradizionale, plasmando una struttura ciclica che ruota intorno alla cellula melodica/armonica/ritmica di partenza. Il tema con variazioni dell’op. 109 viene riproposto integralmente al termine del movimento (e della sonata: come non pensare alle Goldberg!); nell’op. 110 l’Arioso dolente e la fuga si ripresentano alternandosi, variati e invertiti; l’indimenticabile Arietta dell’op. 111, pur nella varietà di letture possibili, appare come una parabola umana che attraversa il vigore della gioventù, la calma della maturità, gli smarrimenti e i dubbi presenili, l’ultima fiammata prima del tramonto, stemperandosi infine nell’estrema citazione del tema, spoglia ma affettuosa, riconoscente per ciò che si è vissuto. Detto altrimenti, in queste pagine sublimi sono costantemente presenti la prospettiva antropologica e il senso dell’inizio e della fine, raccolti in un’unica vicenda musicale.

Non mi stupisco che Levit abbia utilizzato quindi il vecchio trucco degli speaker più scafati, cioè smorzare la tensione con una barzelletta prima di affrontare temi impegnativi. Del breve siparietto introduttivo in realtà sono riuscito ad intendere solo il “thank you very much” finale, detto mentre mi stavo sedendo, ma l’arcano è stato presto svelato: a quanto pare nei suoi ultimi concerti Levit prima di suonare si è rivolto al pubblico raccontando di aver smarrito il suo bagaglio per colpa della compagnia aerea, e che per questo motivo è stato costretto ad esibire un outfit davvero informale, con giacca scura, maglia con scollo a V e pantaloni scuri anch’essi, camicia bianca, scarponcino nero con zeppa a carrarmato, quasi buona per farci trekking. Chiaramente nessuno ha creduto che la cosa non sia stata appositamente studiata, ma il pianista di questa sera è notoriamente un eccellente comunicatore, un personaggio che ha acquisito popolarità presso un largo pubblico anche per determinate esternazioni in campo politico e per la sua presenza mediatica (ricordiamo gli House Concert, i concerti dal salotto di casa sua durante la pandemia, trasmessi in diretta sul suo seguitissimo canale Twitter). Certi exploit non devono pertanto sorprendere. Levit è naturalmente anche molto altro, un pianista giovane – appena trentacinquenne – ma attualmente tra i più celebrati, tanto da aver dovuto rigettare, con non poco fastidio, l’epiteto di “pianista del secolo”, coniato da una fin troppo entusiasta testata giornalistica. E soprattutto è molto incensato per le sue interpretazioni beethoveniane, anzi lo era già diversi anni fa, in un’età in cui di solito un rampante pianista non ancora trentenne si tiene comunque a debita distanza da un repertorio così scottante.

L’aspettativa per questo concerto è stata quindi elevata. Ma possiamo dire, anticipando le conclusioni, che Levit si è dimostrato più che all’altezza della sua già notevole fama.

La contrapposizione tra il Vivacema non troppo e l’Adagio espressivo nel primo tempo dell’op. 109 viene eseguita con lo stacco metronomico che i due andamenti intuitivamente suggeriscono; allo stesso modo il Prestissimo è tirato via senza mai prendere fiato e stranamente senza raffinarne troppo i contorni. Nel terzo tempo colpiscono la calda affettuosità della melodia (tema e prima variazione), e il modo con cui Levit sembra individuare nella quarta variazione la debolezza strutturale di tutta la sonata. Nello sforzo di sintesi, i tempi qui si fanno più veloci del normale (anche rispetto alla sua stessa incisione), al limite della fretta, con un’intuizione che diversi decenni fa aveva avuto Gould, il quale tuttavia suonava queste pagine come un disco 33 giri fatto girare a 78… Velocissima anch’essa e a chiazze di colore l’improvvisazione con il trillo al basso in cui sfocia la sesta variazione. Nell’op. 110 degna di nota è la profondità nelle prime battute del terzo tempo. L’Arioso dolente che segue è restituito con immediatezza e pathos, ma senza smarrire il carattere di trattenuta contrizione che caratterizza l’invenzione melodica, mentre la stretta finale è davvero un’esplosione di gioia incontenibile. L’op. 111 vive i suoi momenti migliori nella quarta variazione, e ancor più nella sesta, in cui si compie un piccolo miracolo timbrico che fa apparire la linea melodica soffusa, tenera e in qualche modo sotto traccia, annunciando come meglio non si potrebbe che il cerchio si sta chiudendo intorno alla primigenia cellula motivica.

Levit ha confessato in un’intervista di lavorare ad un ritmo talmente frenetico che negli ultimi tempi il suo primo pensiero dopo un concerto è: “What’s next?”. E tuttavia mi è sembrato che egli abbia ricevuto gli applausi con un’espressione compiaciuta, con gli occhi che sembravano davvero ridere di gioia. Particolare curioso: dopo l’unico bis Levit è comparso sul palco con un grosso anello metallico all’anulare sinistro, tacito segnale che il concerto è finito e non ci saranno altri fuori programma.

Riflettendo a mente fredda su questo recital, la mia memoria è andata ai primi due interpreti che in queste pagine ascoltai ormai molti anni fa: Yves Nat e Claudio Arrau. Essi stavano l’uno all’altro come in campo scientifico il metodo induttivo sta a quello deduttivo. Nat aveva un approccio quasi improvvisativo a tutta la musica di Beethoven, come se dovesse arrivarci con l’arte della divinazione, mentre il grande cileno filtrava queste pagine attraverso un gigantesco setaccio analitico che ne svelava pieghe nascoste a cui quasi nessun altro avrebbe fatto caso. Entrambi portavano comunque alla luce aspetti di cui è anche fatta la sostanza dell’ultimo Beethoven: pieno di forza espressiva dirompente e ancestrale, Nat, poco etereo e smaterializzato ma pieno di calma interiore, Arrau.

E Levit? Il pianista russo-tedesco ha scelto la via dell’informalità, non solo nel suo rapporto con il pubblico, ma anche nel suo modo di porgere questo ultimo Beethoven, di cui cerca di recuperare la semplicità e la dimensione spesso colloquiale. Levit tenta di cogliere, a mio parere con successo, non tanto la sostanza filosofica, meditativa, trascendente di queste pagine, quanto quella autenticamente – a volte solo epidermicamente – musicale. Lo ha fatto attraverso un approccio intuitivo, privo di eccessive sovrastrutture, ma al contempo con un diffuso rispetto del segno grafico che è stato paradossalmente il modo più sicuro di sganciarsi dall’opera di molti grandi interpreti che lo hanno preceduto. Mi ha impressionato l’uso molto libero del pedale, che specialmente nei tempi più lenti ha mantenuto a mezz’aria l’eloquio musicale, facendo infiltrare il vapore sonoro temerariamente dentro frasi da tenere solitamente chiuse in compartimenti stagni. E il pianista ha mostrato grande intelligenza anche nell’eseguire in modo timbricamente uniforme alcuni passi in cui sono presenti sottili richiami dall’una all’altra sonata, proprio per evidenziarne il legame genetico. Nel complesso Levit mi è sembrato più vicino alla poetica di Nat, a quel modo diretto di restituire l’arcaica musicalità di queste pagine, ma con buona cura dei dettagli e senza la tellurica rozzezza talvolta presente in alcuni fraseggi del mitico pianista francese.

In definitiva, nel suo armonico connubio tra istinto primordiale, intimismo non affettato e simpatico understatement, Levit si è dimostrato un autentico, grande interprete dei nostri tempi. Può darsi che, come tutti i solisti che hanno un agenda fitta di impegni, egli veramente risenta della stanchezza fisica e psicologica, una sorta di burn out che è sempre in agguato in un mestiere tanto meraviglioso quanto spesso ingrato. Ma dopo questo concerto sono io che, sedendomi stavolta comodo in mezzo al pubblico, avrei voglia di riascoltarlo e mi permetto quindi di rubargli la battuta: what’s next?


 

 

 
 
 

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