L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il velluto di Stradivari e gli enigmi di Elgar

di Alberto Ponti

Magistrale interpretazione del giovanissimo talento del violino del Concerto n. 3 di Saint-Saëns, incastonato come una gemma preziosa tra due robuste pagine del grande repertorio romantico

TORINO, 23 novembre 2023 - Un concerto che inizi con l'ouverture da Benvenuto Cellini op. 23 di Hector Berlioz non è quasi mai, per un direttore, una passeggiata. La conferma è venuta anche lo scorso giovedì 23 novembre quando sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale è salito il giapponese Kazuki Yamada. Nel 1838, alla sua prima apparizione, il pezzo era, dal punto di vista della scrittura, quanto di più infernale si potesse concepire ma ancora oggi, dopo che in quasi due secoli la complessità delle partiture è cresciuta a dismisura, è in grado di dare filo da torcere a qualsiasi esecutore. Il fatto è che le pagine operistiche di Berlioz, anche quelle puramente strumentali, sono un coacervo spesso inestricabile di retorica e geniale imprevedibilità, impossibili da risolvere su un piano solo tecnico se non ci si immerge a fondo in quel romanticismo un po' a forti tinte alla Victor Hugo che ne costituisce il milieu di fondo. Passioni semplici e immediate ma declinate in maniera raffinatissima e originale dal punto di vista musicale. Yamada, impeccabile dal punto di vista del gesto e della resa agogica del singolo particolare, appare smarrito nel conferire una convincente visione d'insieme al brano, staccato a velocità sostenuta ma con una magniloquenza sonora abbastanza uniforme che penalizza la grande varietà timbrica sfoderata dal compositore tanto nell'Allegro deciso con impeto quanto nel Larghetto centrale dove compare il tema cantabile che, con procedimento in cui Berlioz è maestro insuperato, viene sovrapposto, nella stretta conclusiva, alla brillante idea melodica della parte iniziale.

Più nelle corde del maestro nipponico, attuale direttore principale della City of Birmingham Symphony Orchestra, è il Concerto n. 3 in si minore per violino op. 61 (1880) di Camille Saint-Saëns, cui non fa difetto un eloquio sinfonico tutt'altro che secondario rispetto alle virtuosistiche evoluzioni del solista, ruolo ricoperto per l'occasione del ventiduenne Daniel Lozakovich. Il giovane violinista, che ha la fortuna di avere tra le mani uno Stradivari 'ex Sancy' del 1713 messo a disposizione dalla fondazione Louis Vuitton, si impone all'attento pubblico torinese per una qualità e purezza di suono del tutto particolare, caratterizzata da un timbro vellutato tendente allo scuro, quasi si trattasse di una viola. Il concerto dell'autore francese, tra le sue opere più memorabili per la spontaneità dell'invenzione melodica inserita in una cornice di vigorosa drammaticità, non potrebbe chiedere di meglio, a partire dall'icastico motivo conduttore del primo tempo Allegro non troppo, che si snoda con insistenza intorno alla dominante in una girandola di note staccate e sforzate. Anche nelle volanti puntate verso l'alto, dove il talento di Lozakovich ha buon gioco nel districarsi tra le rapide folate di terzine e quartine alternate in un dialogo sempre sapido e intrigante con gli strumenti dell'orchestra, non vengono mai meno le doti di somma cantabilità, di chiarezza nei colpi d'arco, di fluidità nel vibrato che l'hanno già reso, nonostante la giovanissima età, un idolo delle platee internazionali. Perfezione nell'intonazione e spiccata sensibilità nelle dinamiche, con rapidi guizzi in pianissimo e trilli di cristallo caratterizzano l'Andantino quasi allegretto, uno di quei movimenti a metà strada tra tempo lento e scherzo in cui Saint-Saëns raggiunge sovente la parte migliore della propria inventiva, prima del finale dal robusto dialogo tra solo e tutti risolto da Lozakovich e Yamada mediante un'intesa espressiva esemplare, con l'orchestra abile nel sostenere le volute funamboliche del violino, reiterate, per la delizia dei presenti, nel successivo encore della Sonata n. 3 di Eugène Ysaÿe.

Miglior risultato rispetto a Berlioz consegue nella seconda parte della serata la bacchetta di Yamada, alle prese con le Enigma Variations op. 36 (1899) di Sir Edward Elgar, massimo autore britannico a cavallo tra Otto e Novecento. Atmosfere assai differenti, ora idilliche ora bonariamente agitate, si alternano nell'ampia pagina strutturata in quattordici variazioni, ciascuna dedicata a una persona conosciuta dal compositore, su un tema a sua volta derivato da un'idea fondamentale che ricorre nell'intera partitura senza venire mai esposta. Da qui il mistero e l'enigma. L'esecuzione è gradevolissima, con momenti di sublime intensità lirica: non solo il celebre Nimrod (variazione IX), ma anche la prima variazione indicata con le iniziali C.A.E. (ossia la moglie Caroline Alice Elgar) con la compagine degli archi in gran spolvero nel rendere la vaporosità delle figurazioni ascendenti che sfociano in un triplo pianissimo nel registro acuto. L’intelligenza della lettura di Yamada si palesa nella scelta di tempi né troppo stretti, con i passaggi concitati delle variazioni IV (W.M.B.), VII (Troyte) e XI (G.R.S.) mai a corto di respiro, anzi rinvigoriti da ariose e guizzanti movenze, né troppo solenni e trascinati, rischio in agguato quando si ha a che fare con l’opulenta strumentazione tardoromantica. Esemplare la tredicesima e penultima variazione contrassegnata da tre asterischi e dall’indicazione Romanza: sul tranquillo ma criptico tappeto di viole e violoncelli amplificato dall’impercettibile rullo dei timpani, il delicato solo del clarinetto, come proveniente da un’altra dimensione, ha steso un velo di autentico mistero rispettando appieno le intenzioni di Elgar nella stessa sala in cui nel 1905, Toscanini direttore, si era avuta la prima esecuzione italiana delle Enigma Variations.

Platea non numerosa ma successo caloroso nei confronti degli interpreti e di un programma incentrato su tre pagine che, a ben vedere, rivelano una volta di più l’attualità del migliore Ottocento, la cui onda lunga possiamo avvertire ancora oggi in tanta musica solo in apparenza di rottura con la tradizione. Verrebbe da affermare, parafrasando Croce, ‘perché non possiamo non dirci “romantici”’.


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