L’Ape musicale

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Un crepuscolo dorato

Quando l’impresario Bartolomeo Merelli offre a Bellini di inaugurare la stagione di Parma del maggio ’29 con un Cesare in Egitto su libretto del parmense Luigi Torrigiani, a Bellini quel soggetto – è noto - non piace. Nelle trattative che dovrebbero convincere il catanese, Torrigiani coinvolge Enrichetta; e a rifiutare sono in due, chè anche lei ha una sua volontà. È Zaira il nuovo titolo belliniano alla cui creazione – dopo solo due settimane di prove - il nostro soprano partecipa. “Voce pieghevole, estesa, sonante e in suo genere assai rara…Come non sentirsi commossi alle dolci inflessioni che ad essa presta con ogni possibil arte e sempre là dove appunto più il sentimento lo richiede?” scrive di lei il periodico Teatri, Arti e Letteratura di Bologna.

Ma è massacrante tutta la stagione parmense, con la creazione del ruolo di Zilia nella nuova opera Colombo di Luigi Ricci, Semiramide (sotto il titolo La morte di Semiramide ) accanto all’Assur di Lablache e Il barbiere di Siviglia. Teatri, Arti e Letteratura scrive su questa Rosina una pagina molto bella: “mirabile esecutrice … esattissimo fiorire; il protrarre sì nitido un filo di voce e piena indi spiegarla; il balzare con tanta intonazione e il rapido passare a gradi chiari e sonanti dal basso all’alto e viceversa, e infine quel suo dolcissimo accento d’affetto ben danno a conoscere che Rosina è cresciuta a nobile condizione. Ne fu applauditissima la cavatina; sovrammodo poi applaudite furono alcune variazioni ch’essa cantò nel secondo atto…nelle quali mostrò che non sonovi difficoltà musicali ch’ella con maestria non superi”.

Belliniana storica, alla Scala Enrichetta è protagonista della ripresa di Bianca e Fernando in settembre, della Straniera a febbraio; riesce anche a inserire nello stesso teatro la prima assoluta di Giovanna Shore di un tal Carlo Conti e il ruolo del titolo in Giovanna d'Arco di Pacini. Al teatro della Canobbiana quell’estate i milanesi affollano una ripresa del Pirata con Rubini. Il censore universale dei teatri è in estasi e la definisce: “quella prediletta nostra, che dal Pompei nell’autunno 1827 fino a tutto il Carnovale 1830 soavemente ci ha sempre più o meno, secondo il valore delle sue parti, inebbriati”. I fans le offrono “una grossa e ben coniata medaglia, che circondata da una bella corona di lauro porta così da un lato epitato (sic) il suo nome: AD ENRICHETTA MERIC LALANDE ESIMIA ATTRICE CANTANTE, ed il rovescio dice : GLI AMMIRATORI COSTANTI DEL VERO MERITO DOLENTI PER LA VICINA PARTENZA DI LEI”. I Teatri -Giornale drammatico scrive “Ultima recita trionfale… Mme Lalande, come in tutto il corso di queste recite, fece mirabilmente spiccare il gentile tutto suo particolar modo di pronunzia, il brillante, benchè non italiano, metodo di canto, il vigore e l’energia della sua espressione nel dolore e nella disperazione e gl’illimitati sforzi della bellissima sua voce”. . Ma ecco che Gaetano Barbieri, editore del giornale, interviene polemicamente: “nel dolore e nella disperazione?: Non sa esprimere altro la Lalande? Negli Arabi nelle Gallie non esprimeva forse grandezza d’animo? Nel Pirata l’amor di madre, ne Gli ultimi giorni di Pompei quello di madre e di sposa non campeggiano dunque per nulla?” Le guerre sul valore di un interprete operistico sono sempre esistite.

A questo punto bisogna osservare che un critico esperto come l’inglese Henry Chorley affermerà che la voce della Méric Lalande comincia a dare segni anche notevoli di usura proprio da quell’anno 1829. Per molti motivi, ma soprattutto per questo il debutto al King’s Theatre di Londra di Henriette Méric Lalande nel Pirata è profondamente deludente. Chorley spiega che da anni è stata preceduta dalla fama di grandissima cantante e l’aspettativa è immensa; ma è arrivata in Inghilterra troppo tardi e, soprattutto è stata preceduta da cantanti “di più grande genio”. Il riferimento è ovviamente alla triade Pasta-Sontag-Malibran. In realtà la musicalità e il gusto non si discutono, ma la voce è costantemente afflitta da un forte tremolo. The New Monthly Magazine segnala anche che si tratta di una cantante quarantenne (in realtà nell’estate 1830 la Lalande ha, secondo tutte le fonti, trentun anni) e che non ha i lineamenti forti e vivaci delle persone di origine meridionale. Nel caso della Meric Lalande, “lineamenti regolari e piacevoli e figura ben proporzionata e signorile” fanno intuire un po’ di delusione da parte del recensore britannico. C’è da chiedersi quanta parte del fascino della ventiduenne Malibran in ambito parigino e londinese siano la giovinezza e l’aspetto e i colori mediterranei, o andaluso-zingareschi. Ma va detto che le critiche che a Londra decretano il fallimento pressochè totale della cantante vi includono l’opera di Bellini, giudicata priva di originalità, di bellezza e di teatralità.

In un palco, armata di lorgnette e di spirito critico, è proprio Maria Felicia Malibran, che dovrà cantare con la nuova arrivata. Anni dopo sarà pubblicata la lettera che a proposito di quella Imogene scrive a un amico: “sfiora la quarantina …viso di operaia a cottimo, senza quasi espressione piacevole, figura non bella che ha in comune con me il piede più brutto del mondo, La voce trema così forte che non posso giudicarla. Mi trovo ad avere compassione di lei; canta sempre con questa maledetta ondulazione continua. Canta il duetto freddamente e sempre tremando…Ha una bell’aria alla fine in cui è folle, un’aria lachrimoso che ha bisogno di essere cantata e soprattutto recitata in maniera totalmente opposta. Il risultato è che non ha prodotto alcun effetto…Gli applausi più anonimi – voglio dire i più unanimi - che siano mai stati tributati…Le nostre due voci andranno molto poco insieme. Le sue note di centro sono come un filo di ferro teso che produca un piccolo suono arrugginito, tagliente e poco o per nulla gradevole”

Un particolare interessante da me scoperto: il 3 mag 1830 Henriette canta alla Philarmonic Society il terzetto Mathilde -Edwige-Jemmy “Io rendo al vostro amor” da Guillaume Tell, con due giovani cantanti inglesi; il settimanale culturale Athenaeum giudica la musica “uninteresting and ineffective”.

E viene poi la collaborazione con la Malibran nel Matrimonio segreto e Semiramide. Se il giudizio sulla Carolina cimarosiana non si discosta dalla critica alla voce e da un cortese ma non entusiastico apprezzamento delle doti interpretative e sceniche, alla regina di Babilonia l’Athenaeum è costretto a concedere qualche merito importante; pubblico volentieri la recensione , perché nel corso delle mie ricerche la Lalande mi è divantata simpatica e mi dispiace vederla criticata pesantemente: “Successo…in un ruolo che ha messo alla prova i talenti delle tre più grandi cantanti di oggi…Il suo portamento è dignitoso e appropriato; delinea il personaggio con molta accuratezza; e il suo canto è molto più potente ed espressivo che in alcun ruolo da lei finora presentato. La voce, anche se ha perso la frescura (sic) ha ciononostante nel registro grave una particolarità di espressione che è accattivante all’orecchio e dopo un po’ diviene molto più gradevole che la semplice insipida dolcezza e i suoi acuti sono argentini e liquidi come sempre; sì che nella natural estensione della voce c’è un contrasto che perlomeno la redime dalla monotonia. Anche il suo gusto è innegabilmente puro; e se pur vi sia qualche difetto fisico che in alcuni passaggi le impedisce di incarnare il nostro ideale, pure è certo che mai ci offende con una trasgressione o perversione del giudizio” (saranno la Malibran e Lablache a deludere in parte; la prima perché risente del confronto con la recente fenomenale Pisaroni; il basso perché a Londra è percepito più come “comico-brillante” che come “tragico”).

Di un Don Giovanni cantato a giugno con Lablache, Donzelli e la Malibran (Zerlina) è testimone un ritratto a pastello dell’artista svizzero naturalizzato inglese Alfred Chalon, che raffigura Henriette nell’abito a lutto di Donna Anna. Anche qui le interpreti precedenti sono ritenute vocalmente molto migliori.

A fine luglio la nostra artista offre tre recite come protagonista dell’opera Donna Caritea di Mercadante, con la Malibran nel ruolo di Diego. “Giustizia vuole che si riconoscano i suoi sforzi meritori e ben riusciti di rappresentare il difficile personaggio della Regina” (New Monthly Magazine ) Conclude la stagione L’inganno felice di Rossini come “beneficiata” della Méric Lalande cui concorre Luigi Lablache. Il Dramatic Magazine asserisce che l’operina può piacere solo a pochi raffinati, che il pubblico è scarsissimo e l’incasso arriva a sole £ 150, laddove le altre tre – Pasta Malibran Sontag – nelle loro beneficiate incassano dieci volte tanto. Questo, secondo il recensore londinese, dovrebbe bastare a stabilire il valore della Lalande; è certo stata grande ma la voce la sta perdendo; “ il timbro è stridulo, il volume isterico”.

Tornata alla Scala, la Lalande interpreta la novità Bianca di Belmonte di Luigi Rieschi (in realtà il napoletano Luigi Riesck) con Rubini, la Unger e Tamburini. Nel pubblico c’è nientemeno che Robert Schumann, che scriverà di avere ascoltato con piacere la primadonna e il tenore. Stesso encomio lascia nei suoi scritti il letterato pavese Defendente Sacchi, che ricorda “ci siamo bevuti più volte le carissime note della Lalande nell’Ultimo giorno di Pompei e nel Pirata e fra quell’affettuoso cantare le tributavamo encomi che partivano dal cuore”.

A Milano esce un fascicolo celebrativo di dodici pagine, I Pregi d'una chiarissima cantante. Breve dissertazione di G. S per i tipi dell’editore milanese Antonio Fontana. Chi è questo “G.S.”?

Nell’inverno ’30-’31 la nostra artista torna a chiamarsi Henriette per una intensa stagione parigina al Theatre des Italiens. Ma anche qui, in una ribalta internazionale, dove la Pasta e la Malibran sono di casa, pubblico e critici trovano la Méric Lalande di voce troppo stanca e ballante, di fisico statico e poco glamorous. Tanto che Il censore universale dei teatri corre alla sua difesa, scorgendo nell’ atteggiamento francese “una certa malignità che disputarle vorrebbe la fama sotto il nostro cielo”

L’8 marzo 1831 la poetessa-compositrice, Louise Angélique Bertin (1805), figlia del fondatore del Journal des Débats, presenta un suo Faust au Théâtre-Italien. Ha tradotto Goethe in francese e ha composto l’opera, incoraggiata da Berlioz, che dal 1824 è attivo nella critica musicale parigina. La Bertin, che vuole rimanere “Mademoiselle B.” sorprende il mondo musicale con un soggetto sostanzialmente nuovo e originale e con musiche cupe e drammatiche. Sarebbe interessante riascoltare e rivedere questo secondo Faust (il primo in ordine di tempo è di Spohr). La Revue de Paris informa che Domenico Donzelli è stato un Faust molto freddo; “notre première cantatrice” (la Malibran?) "ha rinunciato all’incarico e al suo posto la Mèric Lalande, che come attrice ci sembra fare ogni giorno innegabili progressi, ha dispiegato nel ruolo di Marguerite le intenzioni più drammatiche. È seccante che nelle corde alte la sua voce non resista a sufficienza a quell’emozione che la rende a volte così penetrante”. L’Eco, giornale di Milano, vuole invece segnalare: “Nell’ultima scena sublime l’esecuzione della signora Meric Lalande, che fu applaudita con entusiasmo”. A conclusione di questa seconda stagione parigina c’è un Don Giovanni che la vede accanto alla Pasta.

Si è creato il mito di una carriera divisa in due tronconi, la Méric Lalande fino al 1829, brillantissima vocalista e animosa interprete, e la Lalande dopo il ’29, messa in ombra dalla Pasta, dalla Malibran, da Giulia Grisi, per cui non si capisce bene perché prosegua la carriera ai massimi livelli italiani.

Storicamente, il titolo alla cui creazione la Méric Lalande è maggiormente legata è quello della Lucrezia Borgia di Donizetti, nel dicembre 1833 alla Scala. In realtà all’inizio dell’anno il teatro milanese prevede una Saffo di Mercadante; ma la primadonna – e forse anche il compositore – trova il soggetto scabroso. Non che la Lucrèce Borgia di Victor Hugo sia un soggetto tranquillo e timorato, su cui la censura non abbia niente da obiettare; ma Enrichetta trova più teatrale e soddisfacente la storico-mitica avvelenatrice. Comunque lo spostamento su Victor Hugo è precedente al passaggio di consegne da Mercadante a Donizetti: c’è una lettera scritta da Enrichetta il 28 mag ’33 da Parigi a Milano : “Ho già preso dei libretti di Victor Hugo che sono bellissimi e bene adattati per me, colla prima persona che si recherà a Milano li spedirò al Sig.re (Felice) Romani, o li porterò io stessa fra poco tempo. Col primo corriere scriverò al Maestro Mercadante”. È lei quindi a fare da tramite tra Mercadante e Romani; è lei, in seguito, a esigere da Donizetti il finale “Era desso il figlio mio”: che lui non scrive volentieri, che la critica del’900 ha attribuito all’ottusità e all’ostinazione di una primadonna viziata, sulla base del discutibile principio che nel teatro operistico una donna straziata dal dolore non canta…. Si tratta di una pagina di stile rossiniano, scritta proprio sulle capacità e sulla scuola di questa artista. E comunque il suo autore non scrisse e non fece mai nulla per abolirla nelle riprese senza la Lalande, almeno fino al 1840, quando, protagonista la Frezzolini, omaggiò la primadonna di una cabaletta nel prologo optando per una scena finale più intima e meno spettacolare. Ad ogni modo, Enrichetta nel 1833 quale non sembra essere in buona voce, e diverse cronache riferiscono che è l’interprete di Maffio Orsini, Marietta Brambilla, a ricevere più applausi.

Quando agli inizi del 1965 Marilyn Horne rinunciò a cantare Lucrezia Borgia alla Carnegie Hall, siglando il proprio più o meno definitivo passaggio al ruolo di mezzosoprano, il suo posto fu preso dalla Caballé, con risultati straordinari. Già da tempo attiva, la catalana divenne celebre solo dopo l’esecuzione newyorkese del 20 aprile ’65. Nel giugno ’65 usciva l’album a 33 giri “Callas canta Rossini e Donizetti”; la scena “Tranquillo ai posa…Com’è bello, quale incanto” dalla Lucrezia fu registrata il 13 aprile ’64 (e c’è una registrazione precedente , effettuata il 15 novembre ’61, che è rimasta inedita fino al 1992). Nello stesso anno 1965 abbiamo dunque la soavissima Borgia della Caballè e quella scura, intubata, sfilacciata ma intrigante e struggente della Callas. Come dire la Lalande pre-1829 e la Lalande degli “anni ‘30” messe a confronto ?


 

 

 
 
 

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