Tre assi e tre carte minori (ma essenziali al gioco)
di Alberto Ponti
I due concerti diretti da Ottavio Dantone all'auditorium Rai consentono di assaporare, accanto a tre importanti sinfonie di Haydn e Mozart, altrettanti brani di maggior concisione e inconsueta frequentazione
TORINO, 23 e 30 marzo 2023 - Il doppio appuntamento con l'Orchestra Sinfonica Nazionale guidata da Ottavio Dantone in due concerti consecutivi, giovedì 23 marzo e giovedì 30 marzo, entrambi salutati da un buon successo di pubblico, ha avuto il pregio di mettere a confronto capolavori del Settecento con pagine coeve meno note, repertorio dove il maestro pugliese ha acquistato nel corso degli anni indiscussa padronanza. Se è vero che ogni arte è stata contemporanea e che non sempre all'epoca grandi compositori sono stati riconosciuti come tali, mentre in vita furono assai celebri autori attualmente sconosciuti, è altrettanto vero che a distanza di oltre due secoli i giudizi di valore hanno avuto modo di formarsi in modo definito e verificato ed è assai difficile incontrare oggi l'opera sconosciuta arrivata diretta dall'età dei lumi che faccia sobbalzare dalla poltrona. Se tuttavia riducessimo la storia della musica a una successione di soli lavori capitali perderemmo molto del senso evolutivo dell'arte, dal momento che anche grazie ai titoli rimasti in ombra si coglie meglio il fascio di luce che investe i sommi monumenti. Il senso dell'operazione condotta da Dantone nelle due serate torinesi è stato proprio questo: proporre insieme a una compagine eccellente quale l'OSN Rai alcuni pezzi che di solito non si ascoltano mai, in un'esecuzione professionale di alto livello che non sia quella di una piccola compagine locale come spesso purtroppo capita quando si tratta di ricordare un genius loci a cui qualche luogo ha dato i natali, alcuni frammenti dell'immenso repertorio del passato in grado di farci comprendere e apprezzare rami della storia musicale più sottili e distanti dal tronco principale ma, in quanto parte dello stesso albero, artefici della sua grandezza e bellezza.
Di notevole effetto, pur nella brevità della forma, è l'ouverture da Olimpia, canonico soggetto classico rappresentato un anno prima della scomparsa da Joseph Martin Kraus (1756-1792), tedesco di nascita e svedese di adozione, accomunato a Mozart da una medesima breve esistenza, addirittura quasi parallela in termini anagrafici. L'introduzione al dramma vive del contrasto tra un ispirato Adagio e un fiammeggiante tempo veloce in cui paiono spuntare ante litteram inquietudini Sturm und Drang.
Convenzionale e di minore originalità, pur concertata in modo magistrale da Dantone che ottiene da un'orchestra in formato ridotto un suono brillante ed espressivo, è invece la Sinfonia n. 5 in mi maggiore di Andrea Luchesi (1741-1801), altro cervello in fuga dalla natia Motta di Livenza alla Corte dell'Arcivescovo di Colonia a Bonn dove conobbe il giovane Beethoven. La concisa pagina, proposta nella trascrizione moderna di Agostino Granzotto dalle parti manoscritte conservate a Praga, vive soprattutto di un aggraziato Andante centrale senza uscire dal perimetro dello stile galante dell'epoca.
Il brano di maggior interesse della triade presentata all'inizio della prima serata è stato il Concerto in sol maggiore op. 2 n. 1 di Joseph Boulogne Chevalier de St. Georges (1745-1799), dotato tanto nella musica quanto nella scherma, personaggio da romanzo a cominciare dalle origini di mulatto figlio di un francese proprietario di piantagioni nelle Antille e di una schiava africana, idolo dei salotti nella Parigi prerivoluzionaria e morto in povertà negli ultimi anni del direttorio. L'interpretazione del solista Roberto Ranfaldi, primo violino dell'orchestra, ha messo in luce al meglio la freschezza tematica di un compositore dotato di un indubbia inventiva e di uno stile con tratti personali. L'attacco del primo movimento sarebbe capace di magnetizzare l'attenzione di qualsiasi ascoltatore e potrebbe essere uscito dalla penna di Mozart o Haydn, un mix di brio, poesia, incanto melodico, ma nel prosieguo del tempo uno sviluppo piuttosto debole e scolastico segna la differenza fra un compositore comunque valido e dotato di un mestiere nel senso più elevato del termine quale Boulogne fu, e il genio che soli pochissimi possiedono e padroneggiano.
Appena evocati, arriviamo dunque ai due protagonisti assoluti della seconda metà del Settecento. Di Haydn, al secondo appuntamento, é stata eseguita la Sinfonia n. 45 in fa diesis minore Degli addii, mentre al culmine della prima serata era programmata la n. 103 Col rullo di timpano, penultima delle sinfonie scritte per Londra. Chiusura con Mozart e la sua K 543 in mi bemolle maggiore, appartenente alla miracolosa triade finale di sinfonie create nell'estate 1788.
L'interpretazione di Dantone, che ha potuto contare su un'orchestra in forma smagliante, è stata autentica, sanguigna, a tratti spavalda come nella 103 di Haydn dove il rullo del timpano, segnale d'apertura destinato a ritornare al termine del movimento, richiamava piuttosto l'adrenalinica scarica di energia dell'Inestinguibile di Carl Nielsen. Allo stesso modo, in Mozart, i sublimi giochi contrappuntistici del finale o i contrasti tra le due sezioni dell'Andante con moto potrebbero sembrare calcati all'eccesso, oltre le intenzioni del compositore ma, nella visione globale del direttore, paiono giustificare l'appellativo di 'Eroica' che talvolta viene dato alla pagina, non solo per la risposta dell'intera orchestra all'idea principale di apertura dell'Allegro esposta dagli archi (mi bemolle – sol – mi bemolle – si bemolle), che con ritmo appena diverso è la cellula iniziale della Terza sinfonia beethoveniana, ma anche per certe atmosfere pre-romantiche ingenerate dall'uso, rarissimo nell'autore, dei clarinetti al posto dei tradizionali oboi.
Nella Sinfonia Degli addii si raggiunge infine un perfetto, classico, apollineo equilibrio che è il modo più commosso di rendere omaggio alla creatività infinita di Haydn che inventò l'uscita di scena progressiva degli strumenti come forma di intercessione in favore dei musicisti del principe Eszterhàzy, costretti a rimanere troppo a lungo lontano da casa al servizio del mecenate.