L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Cibo mortale e cibo celeste

 di Roberta Pedrotti

Gianfranco Mariotti

Suite della bellezza dimenticata

Milano, Ricordi, 2014

pagine 135

ISBN 978-88-7592-973-2

RICORDI

Questo libro è una testimonianza e una dichiarazione d'amore. È una sorta di autoritratto ideale cui sarebbe sbagliato accostarsi come a un trattato scientifico o filosofico. Potremo condividere o meno la singola considerazione storica o estetica, ma non sarà questo il centro del libro, né limiterà il respiro di una riflessione personale che guarda a orizzonti ben più ampi. Il centro, paradossalmente, non è nemmeno la conclusione: o, meglio, la conclusione è l'anima di ogni riflessione, ma non giunge come una sorpresa, bensì come un naturalissimo dato di fatto che dovrebbe esser ben presente a chiunque si occupi, a qualsivoglia titolo, di arte e cultura. Un dato di fatto tanto elementare quanto bisognoso d'essere ribadito senza requie: l'inafferrabile e indefinibile ontologia del bello e dell'arte e la loro intrinseca necessità anche al di là dell'oggettiva e dimostrata produttività economica delle attività culturali. “Con la cultura si mangia”, ma soprattutto “la cultura si mangia”, cibo celeste, ovviamente, non (solo) cibo mortale, per quanto non meno fondamentale.

Chi scrive è Gianfranco Mariotti, il sovrintendente e il demiurgo del Rossini Opera Festival che intorno a questa esperienza dipana un ordinato labirinto di suggestioni, radici antiche e orizzonti futuri.

Cita il retaggio classico, il mondo greco romano, traduce personalmente versi latini. Lo fa oggi, in tempi in cui assistiamo a oziose, ma perniciose, discussioni sulla presunta “utilità” del liceo classico che spesso sfociavano in considerazioni anche positive ma incentrate sui vantaggi pratici di un rigore o di una forma mentis e non nella semplice presa d'atto della bellezza del sapere, che ci rende più completi come esseri umani e ci permette di guardare il mondo con spirito critico, con maggior complessità e sensibilità.

Chi ha la mia età e seguito studi classici ricorderà la nostra prova di latino all'esame di maturità: La formazione dell'architetto dal De Architectura di Vitruvio. Passo, onestamente, non impegnativo, ma fecondo nei contenuti, tracciando un legame indissolubile fra diverse discipline, saperi pratici e teorici apparentemente disparati, ma in realtà utili per un buon architetto come, deduciamo limpidamente, per ogni uomo o donna, professionista o dilettante in ogni campo. Coltivare conoscenza, arte e tecnica è un bisogno naturale dell'essere umano: l'orazion picciola dell'Ulisse dantesco si è forse usurata per troppe citazioni a buon mercato senza divenire, tuttavia, principio riconosciuto come fondante della società, al pari del meno noto appello, dal De Monarchia sempre dell'Alighieri, a tramandare i frutti dell'ingegno dei nostri avi impegnandoci a consegnarne a nostra volta di originali ai posteri.

Assomiglia all'architetto ideale di Vitruvio, Gianfranco Mariotti, formazione classica, professione medica plurispecializzata, passione politica attiva e militante, passione artistica e musicale che ha dato vita al Rossini Opera Festival, un progetto di cui non rivendica la paternità assoluta, ma a cui seppe dare concretezza con un'iniziativa insieme lungimirante e visionaria.

Assomiglia all'architetto di Vitruvio, ma credo preferirebbe la definizione, che usa spesso come massimo senso di stima, di uomo rinascimentale, versatile, mentalmente aperto e concreto, capace di sporcarsi le mani, di elevare il lavoro manuale al pari di quello intellettuale, otium e negotium indissolubilmente legati per agire, non solo contemplare il mondo. Oppure rievocherebbe la figura mitica di Efesto, l'artigiano, il fabbro, il dio sporco di fuliggine, ma anche l'artista che trasforma lo scudo di Achille nella raffigurazione del cosmo e dell'umanità nelle sue opere in guerra e pace.

Anche in questi trentacinque anni di Rossini Opera Festival l'utopia ha avuto momenti rifulgenti o più appannati, ha conosciuto pace e guerra, come in ogni umana vicenda, come in ogni sogno che trova realizzazione in un lasso così ampio di tempo.

Raccontando questa storia la prospettiva privilegiata e pericolosa è quella di chi siede nella sala dei bottoni, ma nella passione si rispecchia quella di tutto il pubblico di vecchia data. In particolare per la ferita aperta nell'urbanistica estiva e musicale dal 2006: la chiusura del Palafestival di via dei Partigiani, il teatro della Semiramide di Hugo De Ana e del Moise et Pharaon di Graham Vick, il luogo dove per la prima volta Guillaume Tell (con Pertusi, Dessì e Kunde) fu eseguito integralmente, dove debuttò con Matilde di Shabran Juan Diego Florez e dove ebbe luogo l'ultimo Viaggio a Reims pesarese con un cast di stelle e non di esordienti. Ma anche il terzo teatro della città, la sede delle produzioni di più ampie dimensioni raggiungibile a piedi con una passeggiata dal centro o dal lungomare. Tutto un altro mondo, tutta un'altra atmosfera rispetto alle navette che traghettano il pubblico verso la sagoma isolata e fantascentifica dell'Adriatic Arena. L'inagibilità del vecchio palazzetto fu una doccia fredda, la speranza si mescola nel cuore con la nostalgia, anche se ormai è difficile dar credito ai periodici annunci di progetti di riqualifica. Personalmente, per la prima volta in vent'anni, la scorsa estate ho rinunciato a percorrere fino in fondo Via Marsala, oltre la gelateria di Juri, oltre la pasticceria San Marco, fino al negozio di giocattoli La Real Cicogna, al ferramenta, al vecchio bar del teatro. Sarebbe stato troppo doloroso veder cadere a pezzi, anno dopo anno, il glorioso Palafestival. E Gianfranco Mariotti lascia trasparire lo stesso sentimento, unito a una speranza ostinata e doverosa, nella sua posizione.

Parla il sovrintendente, ma parla anche l'uomo, e chi lo conosce coglie il peso e il senso affettivo delle sue parole, le legge in filigrana. E si legge nei fatti, come la recente promulgazione di un regolamento ufficiale per l'acquisto dei biglietti di loggione, che dimostra la presa di coscienza di un cambiamento generazionale inesorabile. La civiltà della coda e degli appelli tramandata fino a qualche anno fa (tramite figure indimenticabili come il sacerdote toscano Don Renzo) è ora dispersa, le nuove generazioni non ne condividono la poesia avventurosa, anche perché le amicizie che un tempo si stringevano nei loggioni oggi si coltivano su facebook. Saggio proporre un regolamento che supplisca allo sfumare della tradizione e prevenga discussioni e tensioni.

Non è necessario sposare tutte le considerazioni di Mariotti sulla storia del Festival e dei suoi divi. Mariotti cerca di storicizzare un percorso che da un esordio entusiastico e pionieristico si è affermato in maniera esplosiva, e quindi anche rischiosa, delicatissima. Lo fa unendo l'occhio dell'amministratore e quello dell'appassionato. Ovviamente difende le sue scelte, ne è convinto e orgoglioso, ma non fa sconti, né dimentica i momenti difficili, come quelli del commissariamento della Fondazione Rossini (fortunatamente retto da Paolo De Biagi, uomo di profondo senso istituzionale che sposò in toto, con l'umiltà del profano, la causa del mondo musicologico, avvicinato con appassionata serietà). Fa capire la sua soddisfazione, la responsabilità delle scelte, anche la coscienza dell'umana fallibilità, qualche nostalgia ma non senza una ferma convinzione sul valore del patrimonio del Festival per il futuro.

Intorno al discorso sul Rof sembrerà forse divagare con una serie di riflessioni storiche ed estetiche, di ritratti di artisti del passato e di uomini contemporanei, in un continuo mescolarsi di teoria e pratica, esperienza empirica e astrazione speculativa, di poesia e mani sporche di fuliggine. Ma non si tratta di divagare, quanto di raccontare il sogno e l'utopia di un progetto meraviglioso e concretissimo, simbolo di un cibo celeste non meno necessario all'uomo del cibo mortale, anche perché permeato della materia dei sogni come di fatica e sudore. Di lavoro.

Questo non è un trattato di estetica, di storia dell'arte o di politica. Non è nemmeno un'autobiografia, o un racconto di sette lustri di Festival. È un tassello, comunque sia, imprescindibile del mosaico pesarese, dei suoi personaggi, delle sue storie. È qualcosa di più, per chi ha passato più della metà delle proprie estati infiammandosi, correndo, scadalizzandosi, entusiasmandosi, interrogandosi su e giù per Via Branca e Via Rossini, da Piazza Lazzarini alla Palla di Pomodoro, da Palazzo Antaldi alla Pescheria, dall'Auditorium Pedrotti al Palafestival di via Partigiani. Per chi ricorda l'avvicendarsi dei musicologi, i cicli della prima direzione artistica di Zedda, il decennio di Gigi Ferrari e il ritorno dell'infaticabile motore dell'Accademia Rossiniana.

Forse significherà qualcosa di meno per gli altri, che, però, potranno intuire un po' di quell'ineffabile sentimento dal quale non può prescindere ogni riflessione sul futuro e le prospettive dei uno dei più importanti festival internazionali, nato con una magia tutta sua in una cittadina di mare - alle porte della Romagna, eppure singolarmente ritrosa e riservata – e posto di fronte alla sfida continua della fedeltà a se stesso nel tempo, nelle glorie e nelle traversie.


 

 

 
 
 

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