L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Custodire la memoria quotidiana

 di Carla Monni

 

Una pagina della storia italiana documentata, ma scarsamente conosciuta, e dopo sessant'anni narrata egregiamente da Simone Cristicchi che la ripercorre e la porta in scena nei teatri della penisola: Magazzino 18, titolo ispirato al luogo nel Porto Vecchio di Trieste dove gli esuli lasciavano i loro beni, in attesa un giorno di tornare a riprenderseli.

Bologna, 22 marzo 2015 – “Italiani brava gente […] Noi resistiamo. Partigiani sempre”. Queste le parole sprezzanti iscritte nello striscione trovato all'uscita dell'Arena del Sole di Bologna al termine dello spettacolo Magazzino 18, scritto e interpretato da Simone Cristicchi e prodotto dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e da Promo Music, che racconta la tragedia delle foibe e dell'esodo degli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia. Nato nel 2013, il musical civile – così la definizione coniata da Cristicchi e dal regista Antonio Calenda – dal punto di vista ideologico è stato duramente contestato dall'estrema destra e dall'estrema sinistra, criticando Cristicchi di aver spettacolarizzato quella storia e abusando di una certa retorica per raccontarla.

Ma in seguito ai fatti accaduti nel dopoguerra, il dramma delle foibe e dunque di conseguenza dell'esodo giuliano-dalmata è stato invece sfruttato a destra e totalmente minimizzato, e addirittura giustificato, a sinistra. Sta di fatto che quella storia andava raccontata, e chi poteva farlo meglio del cantautore romano, che da anni porta in scena monologhi e canzoni di forte impatto civile e sociale, dedicati a temi tabù? Tutti ricorderanno Ti regalerò una rosa, vincitrice del 57° Festival di Sanremo, brano tratto dal documentario Dall'altra parte del cancello, il cui testo è un compendio delle storie raccontategli dai pazienti degli istituti psichiatrici da lui visitati in prima persona. Ma dopo aver narrato i disagi e la vita disperata nei manicomi – si rammenta a tal proposito anche lo spettacolo Centro di igiene mentale, testimonianze di poesie e lettere censurate di persone abitanti gli ex manicomi – Cristicchi si dedica e affronta i temi della seconda guerra mondiale, a partire dallo spettacolo teatrale, per la regia di Alessandro Benvenuti, Li Romani in Russia, tratto dall’omonimo libro di Elia Marcelli, che racconta la tragica Campagna di Russia del 1941-1943, e Mio nonno è morto in guerra, dove quattordici sedie ammassate rappresentano quattordici storie di quattordici eroi che hanno vissuto la seconda guerra mondiale.

Circa un anno e mezzo fa l'autore debutta con Magazzino 18, ancora uno spettacolo incentrato sulla storia italiana, ma dove questa volta i protagonisti sono gli oggetti appartenenti alla quotidianità di quei 350.000 italiani che vivevano a Est di Trieste – in Istria, in Dalmazia, a Fiume – e che il 10 febbraio del 1947, con il trattato di Pace di Parigi, quando l’Italia cedette i territori dell’Istria e della fascia costiera alla Jugoslavia, furono costretti ad andarsene perché non c'erano più le condizioni per essere italiani in quei luoghi, dove prese avvio il regime comunista di Tito, e di seguito le violenze e i massacri contro gli italiani, che iniziarono in tanti a svanire nelle foibe fatali. «Cosa nascondi dentro la buca […] Quanti segreti dentro la buca […] Noi cancellati dalla memoria», così intona la ghiacciante marcia scritta da Cristicchi, austera e cadenzata, che descrive la situazione estenuante delle vittime gettate malamente dentro quegli inghiottitori naturali – profondi anche centinaia di metri – poiché colpevoli di essere italiani. Tito e i suoi partigiani mirarono a una vera e propria pulizia etnica, con l'obiettivo di cancellare gli italiani fisicamente, a tal punto da incendiare l'ufficio anagrafe delle città in cui vivevano. Pola, Zara, Buia e Città Nuova d'Istria, tuttora terre fantasma, furono svuotate dalla loro essenza. È a questo punto che gli italiani scelsero di lasciare le loro terre natali, abbandonando i propri beni per avventurarsi piuttosto verso un'Italia del dopoguerra distrutta, invece che essere alienati dal regime.

Gli oggetti, che da 60 anni sono ammassati nel capannone n° 18 del Porto Vecchio di Trieste, partecipano ora alla scenografia dello spettacolo, curata da Paolo Giovanazzi, ma che l'autore ha plasmato nei soggetti veri e propri della storia: sedie, armadi, materassi, letti, stoviglie, fotografie, giocattoli, lettere, tutti accatastati insieme, catalogati con una sigla, un nome, un numero – come se fossero una carta d'identità – e la scritta “Servizio Esodo”. «Qui troverete il quaderno di chi ha imparato le prime parole, qui solo lettere scritte da chi si giurava per sempre l'amore, niente di più è una storia di povere cose, abbandonate, nascoste, dimenticate», un vero e proprio cimitero di oggetti.

Al centro della scena Cristicchi che racconta la vicenda basandosi sui ricordi e sulle storie, raccolti nel libro dal giornalista Jan Bernas e assemblati dal regista Antonio Calenda. Circondato da fonti documentarie, dalla poesia delle canzoni e dal video che riprende alcune scene dell'epoca, il cantautore interpreta sapientemente tutti i personaggi della storia, a partire dall'archivista romano Persichetti, inviato dal Ministero degli Interni per fare una rendicontazione di tutto quello che è contenuto nel Magazzino 18. L'archivista in fondo, interpreta una persona comune, che, al pari dello spettatore, ignora l'esistenza e la vicenda di quegli oggetti, e solo visitando casualmente quel luogo, in mezzo a scartoffie e mobili impolverati, le scopre gradualmente. Dall'archivista Persichetti il cantautore passa poi a raccontare le storie di coloro che hanno perso la vita nelle foibe, come la studentessa italiana Norma Cossetto, violentata e uccisa dai partigiani titini nel 1943, o coloro che furono costretti a fuggire da quelle terre, fra gli altri anche Sergio Endrigo – di cui Cristicchi ha incluso nello spettacolo la canzone autobiografica 1947, struggente elegia della sua città perdutaUto Ughi e Laura Antonelli, scappati da Pola per trovare rifugio nelle baracche dei campi profughi sparsi un po' in tutta Italia.

La forte presenza scenica, dettata anche dai cambi di registro vocale e dei costumi, e l'abilità narrativa del cantautore sono convincenti. Il suo è un teatro veritiero, i cui testi sono caratterizzati da schemi ritmici rimati e dall'autenticità del dialetto romanesco, come nella Canzone dell’Archivista, che intona accompagnandosi con la chitarra. Cristicchi si fa portavoce di quegli italiani cancellati dalla storia, si immedesima nei loro stati d'animo e nelle loro sofferenze, accompagnato, nelle sue canzoni inedite e nei brani strumentali arrangiati dal Maestro Valter Sivilotti, dall'orchestra nascosta dietro le quinte e dal coro di voci bianche – che interviene tra una scena e l'altra – del Teatro Comunale di Bologna. Cruciale è il momento in cui i bambini marciano rappresentando il controesodo dei duemila operai comunisti che decidono di spostarsi da Monfalcone in Jugoslavia, le cui speranze sono però destinate a essere sbaragliate: «Noi siamo la classe operaia, la nostra fede è il sol dell’avvenire. Siam qui per costruire il paradiso, con muscoli d’acciaio, siamo pronti a lavorar […]. La nostra patria è il comunismo, il nostro credo la rivoluzion.».

Ma i bambini rappresentano anche il futuro, le nuove generazioni a cui questa storia doveva essere raccontata, un testamento della memoria che appartiene a tutti gli italiani, metafora, a detta di Cristicchi, “delle fughe di oggi, da guerra, fame, povertà, odio razziale”. E raccontando il dramma italiano il cantautore si fa promotore dell'undicesimo comandamento: “non dimenticare”.


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